IL TRIBUNALE CIVILE E PENALE 
 
    All'esito dell'udienza del 14  dicembre  2011,  tenutasi  per  la
p.c.,  e  della  scadenza  dei  termini  massimi,  contemplati  dagli
articoli 190,  281-quater  s.  c.p.c.;  118  ss.  delle  disposizioni
d'attuazione transitorie del  c.p.c.,  nel  procedimento  contenzioso
R.G.A.C.C. n. 247/1994 vertente tra De Vivo Antonio +  1  e  De  Vivo
Eliodoro + 6, rappresentati e difesi come in atti, 
    sciolta la riserva che precede; + 
    letti gli atti processuali; 
    Ha  pronunciato  la  sotto  estesa  ordinanza   di   sollevazione
d'ufficio    della    questione    non    manifestamente    infondata
d'illegittimita' costituzionale dell'art. 9, terzo comma (comma  3°),
della  legge  24  marzo  2012,  n.  27  (pubblicata  sul  Supplemento
ordinario n. 53/L alla G.U. - Serie generale - 24 marzo 2012 n. 71 ed
entrata  in  vigore  in  pari  data),  di   conversione,   contenente
modificazioni ed integrazioni normative, del decreto-legge 24 gennaio
2012, n.  1  (pubblicato  sul  Supplemento  ordinario  n.  18/L  alla
Gazzetta Ufficiale - Serie generale  -  24  gennaio  2012  n.  19  ed
entrato in vigore in pari data), in applicazione delle  disposizioni,
di cui: 
        1. - All'art. 1, della legge costituzionale 9 febbraio  1948,
n. 1, pubblicata nella G.U.  20  febbraio  1948,  n.  43,  e  recante
l'intestazione "Norme sui giudizi di  legittimita'  costituzionale  e
sulle  garanzie  d'indipendenza  della  Corte  costituzionale",   che
recita: "La questione d'illegittimita' costituzionale di una legge  o
di un atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d'ufficio
o sollevata da una delle  parti  nel  corso  di  un  giudizio  e  non
ritenuta dal giudice manifestamente infondata, e' rimessa alla  Corte
costituzionale per la sua decisione"; 
        2. - All'art. 23, secondo  capoverso  o  terzo  comma,  della
legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, pubblicata nella G.U. 14  marzo
1953, n. 62, il cui testo normativa integrale recita: "Nel  corso  di
un giudizio dinanzi ad una autorita' giurisdizionale una delle  parti
o il Pubblico Ministero possono sollevare questione  di  legittimita'
costituzionale mediante apposita istanza, indicando: 
          a) le disposizioni della legge o dell'atto avente forza  di
legge dello  Stato  o  di  una  Regione,  viziate  da  illegittimita'
costituzionale; 
          b)  le  disposizioni  della  Costituzione  o  delle   leggi
costituzionali, che si assumono violate. L'autorita' giurisdizionale,
qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla
risoluzione della questione  di  legittimita'  costituzionale  o  non
ritenga che la  questione  sollevata  sia  manifestamente  infondata,
emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i  motivi  della
istanza con  cui  fu  sollevata  la  questione,  dispone  l'immediata
trasmissione degli atti  alla  Corte  costituzionale  e  sospende  il
giudizio in corso. 
    La  questione  di   legittimita'   costituzionale   puo'   essere
sollevata, di ufficio, dall'autorita'  giurisdizionale  davanti  alla
quale verte il  giudizio  con  ordinanza  contenente  le  indicazioni
previste alle lettere a) e b) del primo comma e  le  disposizioni  di
cui al comma precedente. L'autorita'  giurisdizionale  ordina  che  a
cura della Cancelleria l'ordinanza di trasmissione  degli  atti  alla
Corte costituzionale sia  notificata,  quando  non  se  ne  sia  data
lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa ed al Pubblico
Ministero quando il  suo  intervento  sia  obbligatorio,  nonche'  al
Presidente del Consiglio dei ministri od al Presidente  della  Giunta
regionale a seconda che sia in questione una legge o un  atto  avente
forza di legge dello  Stato  o  di  una  Regione.  L'ordinanza  viene
comunicata dal cancelliere anche ai Presidenti delle due  Camere  del
Parlamento o al Presidente del Consiglio regionale interessato. 
 
                             Motivazione 
 
    Ad avviso del giudicante la controversia non puo'  essere  decisa
allo stato degli atti. 
    Ed, invero, questo giudice nutre seri dubbi circa la legittimita'
costituzionale  dell'art.  9  della  legge  24  marzo  2012,  n.   27
(pubblicata sul Supplemento ordinario  n.  53/L  alla  G.U.  -  Serie
generale - 24 marzo 2012 n. 71 ed entrata in vigore il di' seguente),
di conversione, contenente modificazioni ed  integrazioni  normative,
del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. l (pubblicato  sul  Supplemento
ordinario n. 18/L alla Gazzetta  Ufficiale  -  Serie  generale  -  24
gennaio 2012 n. 19 ed entrato in vigore in pari data), in oggetto del
seguente testo normativo: 
        3. Le tariffe vigenti alla data  di  entrata  in  vigore  del
presente  decreto  continuano  ad  applicarsi,   limitatamente   alla
liquidazione delle spese giudiziali, sino alla  data  di  entrata  in
vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2  e,  comunque,  non
oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore  della
legge di conversione del presente decreto*. 
    La retroattivita' evidente della norma teste'  cit.,  inesistente
nel decreto-legge convertito e volta a disporre l'ultrattivita' delle
sole  tariffe  giudiziarie  dalla  data  d'entrata   in   vigore   di
quest'ultimo, va sottoposta al  vaglio  preliminare  della  Consulta,
dacche',  essendo  il  giudice  obbligato  a   liquidare   le   spese
processuali,  ove  mai  le  disposizioni  cit.   fossero   dichiarate
incostituzionali, non potrebbe procedervi,  ricreandosi  quel  "vuoto
normativo"   ammesso   dallo   stesso   Ministro   della    Giustizia
nell'intervista del  7  febbraio  u.s.  -  successiva  all'intervento
parlamentare "ex art. 2233 c.c." del 31 gennaio precedente - per  cui
sono state varate le "norme transitorie" retroattive prefate. 
    Non v'e' dubbio al riguardo che, se l'art. 15,  comma  5°,  della
legge 23 agosto 1988, n.  400  stabilisce  che  le  modificazioni  ed
integrazioni normative, intervenute in  sede  di  conversione  di  un
decreto-legge acquistano efficacia dal di' seguente la  pubblicazione
di' detta legge  sulla  G.U.,  le  stesse  disposizioni  recitano  in
contrario che "le modifiche eventualmente apportate al  decreto-legge
in  sede  di  conversione  hanno  efficacia  dal  giorno   successivo
pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest'ultima  non
disponga  diversamente",  come  avviene  nel  caso  di   specie,   in
applicazione dell'art. 9 della legge di conversione cit  secondo  cui
"le tariffe vigenti alla data  di  entrata  in  vigore  del  presente
decreto continuano ad  applicarsi,  limitatamente  alla  liquidazione
delle spese giudiziali, sino alla  data  di  entrata  in  vigore  dei
decreti ministeriali di cui al comma 2  e,  comunque,  non  oltre  il
centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge  di
conversione del presente decreto". 
    L'ultrattivita' retroattiva delle tariffe abrogate alla  data  di
entrata in vigore del decreto-legge n.  1  del  2012,  fissata  dalla
legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27, regola l'efficacia di esse
"diversamente" da quella normalmente statuita per le  modifiche  cit.
le quali, appunto, se "eventualmente apportate  al  decreto-legge  in
sede  di  conversione   hanno   efficacia   dal   giorno   successivo
pubblicazione della legge di conversione". 
1. - Premessa. 
    E' noto come il  Tribunale  di  Cosenza,  con  ordinanza  del  1°
febbraio 2012, ha gia' rimesso al vaglio della  Corte  costituzionale
l'art. 9, commi 1 e 2,  del  decreto-legge  24  gennaio  2012,  n.  1
(pubblicato nel Supplemento ordinario n. 18/L alla Gazzetta Ufficiale
- Serie generale - 24 gennaio 2012 n. 19 ed entrato in vigore in pari
data), sull'abolizione delle tariffe professionali, ritenendo che  le
nuove  previsioni  si  pongono  in   contrasto   con   il   principio
costituzionale della ragionevolezza della legge, nella parte  in  cui
non  prevedono  la  disciplina  transitoria   limitata   al   periodo
intercorrente tra l'entrata in vigore della  norme  e  l'adozione  da
parte del Ministro competente di nuovi parametri per le  liquidazioni
giudiziali. 
    Come sottolineato nell'ordinanza di rimessione  della  questione,
il problema si pone proprio con riguardo alle liquidazioni  da  parte
di un organo giurisdizionale, per le quali solamente il  cd.  decreto
«Cresci Italia», dopo aver disposto l'abolizione di tutte le  tariffe
professionali  e  massime,  ha   previsto   che   il   compenso   del
professionista va determinato con riferimento a  parametri  stabiliti
con decreto del Ministro della giustizia. 
    Il  cit.   decreto-legge   n.   1/2012,   abolendo   le   tariffe
professionali e rimandando l'indicazione dei parametri a  un  decreto
del ministero della Giustizia, lascia un vuoto normativo che  investe
le liquidazioni giudiziali, non essendo ancora intervenuto il decreto
ministeriale. 
    La  questione  ha  aperto  la  strada   a   differenti   correnti
interpretative all'interno della  stessa  magistratura  e  se  alcuni
hanno ipotizzato, in assenza di  parametri  determinati,  il  ricorso
all'equita' da parte del giudice, altri hanno  invece  rilevato  come
l'equita'  giudiziale  possa  essere   esercitata   per   determinare
l'ammontare preciso degli onorari di difesa solo dopo  l'adozione  di
appositi  parametri  da  parte  del  Ministero,  non   anche   prima,
individuando autonomamente i criteri della  liquidazione.  Ne',  come
ancora riportato nell'ordinanza di rimessione,  potrebbe  sostenersi,
nella vacanza  del  provvedimento,  l'applicazione  ultrattiva  delle
tariffe ormai abrogate, vigendo in materia di  norme  processuali  il
principio del "tempus regit actum", per cui si impone  l'applicazione
delle  leggi  vigenti,  e  dunque  del   decreto-legge   n.   1/2012,
regolarmente entrato in vigore il 24 gennaio scorso. Il fenomeno  non
e' nuovo nell'ordinamento giuridico  nazionale,  ma  non  si  e'  mai
verificato in dimensioni di questa portata, perche': 
        A) Il decreto-legge n. 1 del 2012 ha sostituito  un  apparato
tariffario con un sistema parametrale, affatto sconosciuto; 
        B)  In  passato  ogni   intervento   legislativo   e'   stato
accompagnato da un decreto ministeriale contemporaneo  e  contestuale
di determinazione delle tariffe professionali. 
    Infatti,  l'attuale  Testo  Unico  sulle  spese   di   giustizia,
assicurando, a mezzo della previsione di cui agli articoli  da  49  a
56, 275 e 299, 301 del decreto del  Presidente  della  Repubblica  30
maggio 2002, n. 155, la permanenza in vigore dell'art. 4 della  legge
8 luglio 1980, n. 319, e' stato preceduto dal decreto ministeriale 30
maggio 2002 - stessa data del d.P.R. teste' cit. -  pubblicato  sulla
G.U. in pari data n. 182, mentre il Testo Unico pure teste'  cit.  e'
stato  pubblicato  sul  Supplemento  ordinario  n.  126/L  alla  G.U.
seguente 15 giugno 2002, n. 139. 
    Nel caso di specie, invece, l'Italia e' stata condannata nel 2011
dalla Commissione  dell'U.E.  al  pagamento  di  e  500.000,00  (Euro
cinquecentomila) al giorno dal  31  gennaio  2012  se  non  si  fosse
adeguata alla liberalizzazione dei  corrispettivi  nei  contratti  di
prestazione professionale  intellettuale,  stabiliti  dall'art.  2233
c.c., e delle spese di  giustizia  (e  stragiudiziali,  arbitrali  ed
amministrative connesse a liti in potenza od in atto coinvolgenti due
o piu' parti), fissate, per gli avvocati, dal decreto ministeriale  8
aprile 2004, n. 127, pubblicato sul  Supplemento  ordinario  n.  95/L
alla G.U. 18 maggio 2004, n. 115, a  titolo  integrativo  del  rinvio
recettizio, che si legge nell'art. 64,  del  regio  decreto-legge  27
novembre 1933, n. 1578, pubblicato sulla G.U. 5 dicembre 1933, n. 28,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36,  a
sua volta pubblicata sulla G.U.  30  gennaio  1934,  n.  24  (ma  ora
abrogato dalle disposizioni, di cui ai commi 1 e  5  del  24  gennaio
2012, n.  1  [pubblicato  nel  Supplemento  ordinario  n.  18/L  alla
Gazzetta Ufficiale - Serie generale  -  24  gennaio  2012  n.  19  ed
entrato in vigore in pari data], convertito, con modificazioni, dalla
legge 24 marzo 2012, n. 27 [pubblicata sul Supplemento  ordinario  n.
53/L alla G.U. - Serie generale - 24 marzo 2012 n. 71 ed  entrata  in
vigore in pari data]). 
    Le spese di giustizia, per  gli  altri  professionisti  ausiliari
erano  state  finora  salvaguardate  dal  combinato  disposto   degli
articoli 50 e 275 del cit. d. P. R. n. 115/2002. 
    Il  legislatore  italiano  ha  dovuto,  quindi,  rimediare  senza
indugio  ne'  dilazione  alcuna  alla  situazione,  derivante   dalla
sanzione comminata, intervenendo con la massima urgenza  prima  della
scadenza  del  cit.  dies  a  quo  d'irrogazione:  l'unico  strumento
possibile in materia era, logicamente, un decreto-legge. 
    Il  Tribunale  di  Cosenza,  pertanto,  ritenendo  di  non  avere
riferimenti normativi utilizzabili per la  liquidazione  delle  spese
processuali nel giudizio  innanzi  a  lui  pendente,  ha  sospeso  la
decisione relativa alla determinazione di tali spese e ha chiamato la
Corte costituzionale ha giudicare della legittimita' delle previsioni
di cui all'art. 9, commi 1 e 2, del  cit.  decreto-legge  24  gennaio
2012, n. 1, laddove le  disposizioni,  ivi  previste,  non  prevedono
alcuna disciplina transitoria per il  tempo  che  va  dall'abolizione
delle tariffe all'entrata  in  vigore  dei  nuovi  parametri  che  il
Ministero dovra' fissare. 
    Ex intervallo, a  giudizio  di  questo  tribunale,  l'entrata  in
vigore della legge di conversione del decreto-legge,  gia'  fulminato
di denuncia d'incostituzionalita' in oggetto del testo normativo  del
comma 1° (e 2°) cit., non ha affatto migliorato la situazione. 
    Ed, invero, l'art. 9 della legge 24 marzo 2012, n. 27 (pubblicata
sul Supplemento ordinario n. 53/L alla G.U. -  Serie  generale  -  24
marzo 2012 n. 71 ed entrata in vigore in pari data), di  conversione,
contenente modificazioni ed integrazioni normative, del decreto-legge
24 gennaio 2012, n. 1 (pubblicato sul Supplemento ordinario  n.  18/L
alla Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 gennaio 2012 n.  19  ed
entrato in vigore in pari data), dispone quanto segue: 
        Art. 9. (Disposizioni sulle professioni regolamentate) 
    1. Sono abrogate le tariffe delle professioni  regolamentate  nel
sistema ordinistico. 
    2. Ferma restando l'abrogazione di cui al comma 1,  nel  caso  di
liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il  compenso  del
professionista e' determinato con riferimento a  parametri  stabiliti
con decreto del ministro  vigilante,  da  adottarsi  nel  termine  di
centoventi giorni successivi alla data di  entrata  in  vigore  della
legge di conversione del presente decreto. 
    Nello stesso termine, con decreto del Ministro della giustizia di
concerto con il Ministro dell'economia e  delle  finanze  sono  anche
stabiliti  i  parametri  per  oneri  e   contribuzioni   alle   casse
professionali e agli archivi precedentemente basati sulle tariffe. Il
decreto deve salvaguardare l'equilibrio finanziario, anche  di  lungo
periodo, delle casse previdenziali professionali. 
    3. Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente
decreto continuano ad  applicarsi,  limitatamente  alla  liquidazione
delle spese giudiziali, sino alla  data  di  entrata  in  vigore  dei
decreti ministeriali di cui al comma 2  e,  comunque,  non  oltre  il
centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge  di
conversione del presente decreto. 
    4. Il compenso per  le  prestazioni  professionali  e'  pattuito,
nelle forme previste dall'ordinamento, al  momento  del  conferimento
dell'incarico professionale. Il professionista deve rendere  noto  al
cliente il grado di complessita'  dell'incarico,  fornendo  tutte  le
informazioni utili circa  gli  oneri  ipotizzabili  dal  momento  del
conferimento fino alla  conclusione  dell'incarico  e  deve  altresi'
indicare i dati della polizza  assicurativa  per  i  danni  provocati
nell'esercizio dell'attivita' professionale. In ogni caso  la  misura
del compenso e' previamente resa nota al cliente con un preventivo di
massima, deve essere adeguata all'importanza dell'opera e va pattuita
indicando  per  le  singole  prestazioni  tutte  le  voci  di  costo,
comprensive  di  spese,  oneri  e  contributi.  Al   tirocinante   e'
riconosciuto un rimborso spese  forfettariamente  concordato  dopo  i
primi sei mesi di tirocinio. 
    5.  Sono  abrogate   le   disposizioni   vigenti   che   per   la
determinazione del compenso del professionista rinviano alle  tariffe
di cui al comma 1. 
    6.  La  durata  del  tirocinio  previsto   per   l'accesso   alle
professioni regolamentate non puo' essere superiore a  diciotto  mesi
e, per  i  primi  sei  mesi,  puo'  essere  svolto,  in  presenza  di
un'apposita convenzione quadro stipulata  tra  i  consigli  nazionali
degli ordini e il Ministro dell'istruzione, universita' e ricerca, in
concomitanza col corso di studio per il conseguimento della laurea di
primo livello o della laurea  magistrale  o  specialistica.  Analoghe
convenzioni possono essere stipulate tra i Consigli  nazionali  degli
ordini  e  il  Ministro  per  la  pubblica   amministrazione   e   la
semplificazione per lo svolgimento  del  tirocinio  presso  pubbliche
amministrazioni, all'esito del corso di laurea. Le  disposizioni  del
presente comma non si applicano alle professioni  sanitarie,  per  le
quali resta confermata la normativa vigente. 
    7. All'articolo 3, comma 5, del decreto-legge 13 agosto 2011,  n.
138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n.
148, sono apportate le seguenti modificazioni: 
        a)  all'alinea,   nel   primo   periodo,   dopo   la   parola
"regolamentate" sono inserite le seguenti: "secondo i principi  della
riduzione e dell'accorpamento, su base  volontaria,  fra  professioni
che svolgono attivita' similari"; 
        b) alla lettera c), il secondo, terzo e quarto  periodo  sono
soppressi; 
        c) la lettera d) e' abrogata. 
    8. Dall'attuazione del  presente  articolo  non  devono  derivare
nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». 
    Il testo normativo teste' riportato non risulta abbia soltanto ed
unicamente convertito il decreto-legge 24 gennaio 2012, n.  1,  cit.,
ma contiene disposizioni normative aventi forza di legge estranee  al
testo originario del decreto-legge convertito, tra  cui  segnatamente
il terzo comma, che stabilisce: 
    3. Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente
decreto continuano ad  applicarsi,  limitatamente  alla  liquidazione
delle spese giudiziali, sino alla  data  di  entrata  in  vigore  dei
decreti ministeriali di cui al comma 2  e,  comunque,  non  oltre  il
centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge  di
conversione del presente decreto. 
    Esse   vanno   lette   -   secondo   i    ben    noti    principi
dell'interpretazione  sistematica  delle  norme  di   legge   e   dei
contratti, di cui agli articoli 12 delle preleggi al codice civile  e
1362 ss. dello stesso c.c. -  in  combinato  disposto  con  le  altre
seguenti  statuizioni  normative   del   decreto-legge   ult.   cit.,
assolutamente lasciate intatte e, percio', non modificate dalla legge
di conversione in parola: 
        1. - Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate
nel sistema ordinistico. 
        5. -  Sono  abrogate  le  disposizioni  vigenti  che  per  la
determinazione del compenso del professionista rinviano alle  tariffe
di cui al comma 1. 
2. - La norma legislativa ritenuta incostituzionale. 
    Essa e' contenuta nell'art. 3,  terzo  comma  (comma  3°),  della
legge 24 marzo 2012, n. 27 (pubblicata sul Supplemento  ordinario  n.
53/L alla G.U. - Serie generale - 24 marzo 2012 n. 71 ed  entrata  in
vigore in pari data), di  conversione,  contenente  modificazioni  ed
integrazioni normative, del  decreto-legge  24  gennaio  2012,  n.  l
(pubblicato sul Supplemento ordinario n. 18/L alla Gazzetta Ufficiale
- Serie generale - 24 gennaio 2012 n. 19 ed entrato in vigore in pari
data), e recita: 
        3. Le tariffe vigenti alla data  di  entrata  in  vigore  del
presente  decreto  continuano  ad  applicarsi,   limitatamente   alla
liquidazione delle spese giudiziali, sino alla  data  di  entrata  in
vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2  e,  comunque,  non
oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore  della
legge di conversione del presente decreto. 
    A  giudizio  dello  scrivente,  in  combinato  disposto  con   le
disposizioni, di cui al primo e quinto comma dell'art.  9  cit,  tale
norma,  contenuta  esclusivamente   nella   legge   di   conversione,
contenente modificazioni ed integrazioni non  retroattive,  24  marzo
2012, n. 27 (pubblicata sul Supplemento ordinario n. 53/L alla G.U. -
Serie generale - 24 marzo 2012 n. 71 ed entrata  in  vigore  in  pari
data), del decreto-legge  24  gennaio  2012,  n.  1  (pubblicato  sul
Supplemento  ordinario  n.  18/L  alla  Gazzetta  Ufficiale  -  Serie
generale - 24 gennaio 2012 n. 19 ed entrato in vigore in pari  data),
si  palesa  incostituzionale,   in   quanto   fissa   la   decorrenza
dell'ultrattivita'  o   continuazione   applicativa   delle   tariffe
professionali abrogate non dalla data d'entrata in vigore della legge
di conversione - il 24 marzo 2012 - ma dalla data d'entrata in vigore
del  "presente  decreto"  che  altro  non  puo'  essere  se  non   il
decreto-legge n. 1 del 2012. 
    Infatti, il testo normativo statuisce  che  "le  tariffe  vigenti
alla data di entrata in vigore del  presente  decreto  continuano  ad
applicarsi,   limitatamente    alla    liquidazione    delle    spese
giudiziali...". 
    Ne consegue che le  sole  norme  "transitorie"  del  comma  terzo
dell'art. 9 - cosi' come modificato dalla  legge  di  conversione  24
marzo 2012, n. 27, ma inesistenti  nel  decreto-legge  convertito  24
gennaio  2012,  n.  1  -  impongono  la  retrotrazione  effettuale  o
retroattivita' della decorrenza dell'ultrattivita' appena  illustrata
delle tariffe professionali abrogate, alla data d'entrata  in  vigore
del decreto-legge in parola. 
    In pratica, con le suddette norme "integrative", il  legislatore,
in sede di conversione del decreto-legge su ripetuto, ha  realizzato,
con  efficacia  retroattiva,  rilevanti  modifiche   dell'ordinamento
giudiziario,  incidendo  in   modo   irragionevole   sul   «legittimo
affidamento  nella  sicurezza  giuridica,  che  costituisce  elemento
fondamentale dello Stato di diritto» (sentenza n. 236 del 2009). 
    Siffatta decorrenza retroattiva si manifesta,  a  tacer  d'altro,
con   cristallina   evidenza,   affatto   incostituzionale,   secondo
l'insegnamento della stessa Consulta,  di  cui  alla  sentenza  della
Corte costituzionale 4 - 5 aprile 2012, n.  78  (Presidente  il  Prof
dott. Antonio Quaranta, relatore ed estensore l'ex collega  Pres.  di
Sez. Cass. Cons. dott. Alessandro Criscuolo) che si riporta nel testo
che procede nella sola motivazione in punto di diritto: 
    Fermo il punto che alcune pronunzie adottate in  sede  di  merito
non sono idonee ad integrare l'attuale  "diritto  vivente",  si  deve
osservare che, come questa Corte ha gia' affermato, l'univoco  tenore
della norma segna il confine  in  presenza  del  quale  il  tentativo
interpretativo deve cedere il  passo  al  sindacato  di  legittimita'
costituzionale (sentenza n. 26 del 2010, punto 2, del Considerato  in
diritto; sentenza n. 219  del  2008,  punto  4,  del  Considerato  in
diritto). 
    Nel caso in esame, il dettato  della  norma  e',  per  l'appunto,
univoco. 
    Nel primo periodo essa stabilisce che, in ordine alle  operazioni
bancarie regolate in conto corrente (il  richiamo  e'  all'art.  1852
cod. civ.), l'art. 2935 cod. civ. si  interpreta  nel  senso  che  la
prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione  in  conto
inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa  (il  principio
e' da intendere riferito a tutti i diritti nascenti  dall'annotazione
in  conto,  in  assenza  di  qualsiasi  distinzione  da   parte   del
legislatore). Il secondo periodo dispone che, in ogni caso, non si fa
luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di  entrata
in vigore della legge di conversione del d.l. n.  225  del  2010;  ed
anche questa disposizione normativa e' chiara nel senso fatto  palese
dal significato proprio delle  parole  (art.  12  disposizioni  sulla
legge in generale), che e'  quello  di  rendere  non  ripetibili  gli
importi  gia'  versati  (evidentemente,  nel  quadro   del   rapporto
menzionato nel primo periodo) alla data di entrata  in  vigore  della
legge di conversione. 
    Questo e', dunque, il contesto normativo sul quale l'ordinanza di
rimessione e' intervenuta. Esso non si prestava ad un'interpretazione
conforme a Costituzione, come  risultera'  dalle  considerazioni  che
saranno svolte trattando del merito. Pertanto,  la  presunta  ragione
d'inammissibilita' non sussiste. 
    La questione e' fondata. 
    L'art. 2935 cod. civ. stabilisce che «La prescrizione comincia  a
decorrere dal giorno in cui il diritto puo' essere fatto valere».  Si
tratta di una norma di carattere generale, dalla quale si evince  che
presupposto della prescrizione e' il mancato esercizio del diritto da
parte del suo titolare. La formula elastica usata dal legislatore  si
spiega con  l'esigenza  di  adattarla  alle  concrete  modalita'  dei
molteplici rapporti dai  quali  i  diritti  soggetti  a  prescrizione
nascono. 
    Il principio posto dal citato  articolo,  peraltro,  vale  quando
manchi una specifica statuizione legislativa sulla  decorrenza  della
prescrizione. Infatti, sia nel codice civile sia in  altri  codici  e
nella legislazione speciale, sono numerosi i casi  in  cui  la  legge
collega il dies a quo  della  prescrizione  a  circostanze  o  eventi
determinati. In alcuni di questi casi  l'indicazione  espressa  della
decorrenza costituisce una  specificazione  del  principio  enunciato
dall'art.  2935  cod.  civ.;  in  altri,  la   determinazione   della
decorrenza stabilita dalla legge costituisce una deroga al  principio
generale che la prescrizione inizia il suo corso dal momento  in  cui
sussiste la  possibilita'  legale  di  far  valere  il  diritto  (non
rilevano, invece, gli impedimenti di mero fatto). 
    In questo quadro, prima  dell'intervento  legislativo  concretato
dalla norma qui censurata,  con  riferimento  alla  prescrizione  del
diritto  alla  ripetizione  dell'indebito  nascente   da   operazioni
bancarie regolate in conto corrente, nella giurisprudenza  di  merito
si era formato un orientamento, peraltro minoritario, secondo cui  la
prescrizione  del  menzionato  diritto   decorreva   dall'annotazione
dell'addebito in conto, in quanto,  benche'  il  contratto  di  conto
corrente bancario fosse considerato come rapporto  unitario,  la  sua
natura di contratto di durata e la  rilevanza  dei  singoli  atti  di
esecuzione giustificavano quella conclusione. 
    In particolare, gli atti di addebito e di  accredito,  fin  dalla
loro annotazione,  producevano  l'effetto  di  modificare  il  saldo,
attraverso la variazione quantitativa, e di determinare in  tal  modo
la somma esigibile dal correntista ai sensi dell'art. 1852 cod. civ. 
    A tale indirizzo si contrapponeva, sempre nella giurisprudenza di
merito, un orientamento di gran lunga maggioritario  secondo  cui  la
prescrizione  del  diritto  alla  ripetizione  dell'indebito   doveva
decorrere dalla chiusura  definitiva  del  rapporto,  considerata  la
natura unitaria del contratto di conto corrente  bancario,  il  quale
darebbe luogo ad un unico rapporto giuridico, ancorche' articolato in
una pluralita' di atti esecutivi: la serie successiva di versamenti e
prelievi,   accreditamenti   e   addebiti,   comporterebbe   soltanto
variazioni quantitative del titolo originario costituito tra banca  e
cliente; soltanto con la chiusura del conto si stabilirebbero in  via
definitiva i crediti e i debiti delle parti  e  le  somme  trattenute
indebitamente dall'istituto di credito potrebbero essere  oggetto  di
ripetizione. 
    Nella giurisprudenza di legittimita',  prima  della  sentenza  n.
24418 del 2 dicembre 2010, resa dalla Corte di cassazione  a  sezioni
unite, non risulta che si  fossero  palesati  contasti  sul  tema  in
esame. Infatti, essa aveva affermato,  in  linea  con  l'orientamento
maggioritario  emerso  in  sede  di  merito,  che   il   termine   di
prescrizione decennale per il reclamo delle  somme  trattenute  dalla
banca indebitamente a titolo di interessi su un'apertura  di  credito
in conto corrente decorre dalla  chiusura  definitiva  del  rapporto,
trattandosi di un contratto  unitario  che  da'  luogo  ad  un  unico
rapporto giuridico, anche se articolato in  una  pluralita'  di  atti
esecutivi, sicche' soltanto con la chiusura del conto si stabiliscono
definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro  (Corte  di
cassazione, sezione prima civile, sentenza 14 maggio 2005, n. 10127 e
sezione prima civile, sentenza 9 aprile 1984, n. 2262). 
    Con la citata sentenza n. 24418 del 2010 (affidata  alle  sezioni
unite per la particolare importanza delle questioni  sollevate:  art.
374, secondo comma, cod. proc. civ.)  la  Corte  di  cassazione,  con
riguardo alla fattispecie al suo  esame  (contratto  di  apertura  di
credito bancario in conto corrente), ha tenuto ferma  la  conclusione
alla quale la precedente giurisprudenza di legittimita' era pervenuta
ed ha affermato, quindi, il seguente principio di diritto: «Se,  dopo
la conclusione di  un  contratto  di  apertura  di  credito  bancario
regolato in conto corrente, il correntista agisce per far  dichiarare
la nullita' della clausola che prevede la corresponsione di interessi
anatocistici e per la ripetizione di quanto  pagato  indebitamente  a
questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui  tale  azione
di ripetizione e' soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal
correntista in pendenza del  rapporto  abbiano  avuto  solo  funzione
ripristinatoria della provvista, dalla data in cui e'  stato  estinto
il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non  dovuti  sono
stati registrati». 
    Rispetto alle pronunzie precedenti, la sentenza n. 24418 del 2010
ha aggiunto che, quando nell'ambito  del  rapporto  in  questione  e'
stato  eseguito  un  atto   giuridico   definibile   come   pagamento
(consistente nell'esecuzione  di  una  prestazione  da  parte  di  un
soggetto, con conseguente spostamento patrimoniale a favore di  altro
soggetto), e il solvens ne  contesti  la  legittimita'  assumendo  la
carenza di una idonea causa giustificativa e percio'  agendo  per  la
ripetizione dell'indebito, la prescrizione decorre dalla data in  cui
il pagamento indebito e' stato eseguito. Ma cio' soltanto qualora  si
sia in presenza  di  un  atto  con  efficacia  solutoria,  cioe'  per
l'appunto di un pagamento, vale a dire di un versamento  eseguito  su
un conto passivo ("scoperto"), cui  non  accede  alcuna  apertura  di
credito a favore del correntista, oppure di un versamento destinato a
coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento (cosiddetto
extra fido). 
    In particolare, con riferimento  alla  fattispecie  (relativa  ad
azione di ripetizione d'indebito proposta dal cliente di  una  banca,
il quale lamentava la nullita'  della  clausola  di  capitalizzazione
trimestrale  degli  interessi),  la  Corte  di  legittimita'  non  ha
condiviso la tesi dell'istituto di credito  ricorrente,  che  avrebbe
voluto individuare il dies a quo del decorso della prescrizione nella
data di annotazione in conto  di  ogni  singola  posta  di  interessi
illegittimamente addebitati al correntista.  Infatti,  «L'annotazione
in conto di una siffatta posta comporta un incremento del debito  del
correntista, o una riduzione del credito di cui egli ancora  dispone,
ma in nessun modo si risolve  in  un  pagamento,  nei  termini  sopra
indicati: perche' non vi corrisponde alcuna attivita'  solutoria  del
correntista  medesimo  in  favore  della  banca.  Sin   dal   momento
dell'annotazione,  avvedutosi  dell'illegittimita'  dell'addebito  in
conto, il correntista potra' naturalmente agire per far dichiarare la
nullita' del titolo su cui quell'addebito si basa e, di  conseguenza,
per ottenere una rettifica in suo favore delle risultanze  del  conto
stesso. E potra' farlo, se al conto  accede  un'apertura  di  credito
bancario, allo scopo di recuperare  una  maggiore  disponibilita'  di
credito entro i limiti del fido concessogli. Ma non puo' agire per la
ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da parte sua non  ha
ancora avuto luogo». 
    Come  si  vede,  dunque,  a  parte  la  correzione  relativa   ai
versamenti con carattere solutorio, la citata sentenza della Corte di
cassazione a sezioni unite conferma l'orientamento  della  precedente
giurisprudenza  di  legittimita',  a  sua  volta  in   sintonia   con
l'orientamento maggioritario della giurisprudenza di merito. 
    12. - In questo contesto e' intervenuto l'art. 2, comma  61,  del
d.l. n. 225 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla  legge  n.
10 del 2011. 
    La norma si compone di due periodi: come gia' si e' accennato, il
primo dispone che «In ordine alle  operazioni  bancarie  regolate  in
conto corrente l'art. 2935 cod. civ. si interpreta nel senso  che  la
prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione  in  conto
inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa». 
    La disposizione si autoqualifica di  interpretazione  e,  dunque,
spiega efficacia retroattiva come, del resto, si evince anche dal suo
tenore letterale che rende  la  stessa  applicabile  alle  situazioni
giuridiche nascenti dal rapporto contrattuale di conto corrente e non
ancora esaurite alla data della sua entrata in vigore. 
    Orbene,  questa  Corte  ha  gia'  affermato  che  il  divieto  di
retroattivita' della legge (art. 11 delle disposizioni sulla legge in
generale), pur costituendo valore fondamentale di civilta' giuridica,
non riceve nell'ordinamento la tutela privilegiata di cui all'art. 25
Cost. (sentenze n. 15 del 2012, n. 236 del 2011, e n. 393 del  2006).
Pertanto, il legislatore - nel rispetto di  tale  previsione  -  puo'
emanare  norme  retroattive,  anche  di  interpretazione   autentica,
purche'   la   retroattivita'    trovi    adeguata    giustificazione
nell'esigenza  di  tutelare  principi,  diritti  e  beni  di  rilievo
costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi  imperativi  di
interesse generale», ai sensi della Convenzione europea  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU). 
    La norma che deriva dalla  legge  di  interpretazione  autentica,
quindi, non puo'  dirsi  costituzionalmente  illegittima  qualora  si
limiti ad assegnare alla  disposizione  interpretata  un  significato
gia' in  essa  contenuto,  riconoscibile  come  una  delle  possibili
letture del testo originario (ex plurimis: sentenze n. 271 e  n.  257
del 2011, n. 209 del 2010 e n. 24 del 2009). In tal caso, infatti, la
legge interpretativa ha lo scopo di chiarire «situazioni di oggettiva
incertezza  del  dato  normativo»,  in  ragione  di   «un   dibattito
giurisprudenziale  irrisolto»  (sentenza  n.  311  del  2009),  o  di
«ristabilire  un'interpretazione  piu'   aderente   alla   originaria
volonta' del legislatore» (ancora sentenza n. 311 del 2009), a tutela
della certezza del diritto e dell'eguaglianza dei cittadini, cioe' di
principi di  preminente  interesse  costituzionale.  Accanto  a  tale
caratteristica, questa Corte  ha  individuato  una  serie  di  limiti
generali  all'efficacia  retroattiva  delle  leggi,  attinenti   alla
salvaguardia,  oltre  che  dei  principi  costituzionali,  di   altri
fondamentali  valori  di  civilta'  giuridica,  posti  a  tutela  dei
destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno
ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza,  che
si riflette nel divieto di introdurre  ingiustificate  disparita'  di
trattamento; la  tutela  dell'affidamento  legittimamente  sorto  nei
soggetti quale  principio  connaturato  allo  Stato  di  diritto;  la
coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico; il rispetto  delle
funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza
n. 209 del 2010, citata, punto 5.1, del Considerato in diritto). 
    Cio' posto, si deve osservare che la norma censurata, con la  sua
efficacia retroattiva, lede in primo luogo il canone  generale  della
ragionevolezza delle norme (art. 3 Cost.). 
    Invero, essa e' intervenuta sull'art. 2935 cod. civ.  in  assenza
di  una  situazione  di  oggettiva  incertezza  del  dato  normativo,
perche',  in  materia  di  decorrenza  del  termine  di  prescrizione
relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, a parte
un indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza di merito, si
era  ormai   formato   un   orientamento   maggioritario   in   detta
giurisprudenza, che aveva trovato riscontro in sede  di  legittimita'
ed  aveva  condotto  ad  individuare  nella  chiusura  del   rapporto
contrattuale o nel pagamento solutorio il dies a quo per  il  decorso
del suddetto termine. 
    Inoltre, la soluzione fatta propria dal legislatore con la  norma
denunziata non  puo'  sotto  alcun  profilo  essere  considerata  una
possibile variante di senso del testo originario della norma  oggetto
d'interpretazione. 
    Come  sopra  si  e'  notato,  quest'ultima  pone  una  regola  di
carattere generale, che fa decorrere la prescrizione  dal  giorno  in
cui il diritto (gia' sorto) puo' essere fatto legalmente  valere,  in
coerenza  con  la  ratio  dell'istituto  che  postula  l'inerzia  del
titolare del diritto stesso, nonche' con la finalita' di demandare al
giudice  l'accertamento  sul  punto,  in  relazione   alle   concrete
modalita' della fattispecie. La norma censurata, invece,  interviene,
con riguardo alle operazioni bancarie  regolate  in  conto  corrente,
individuando, con effetto retroattivo, il dies a quo per  il  decorso
della prescrizione nella data di annotazione  in  conto  dei  diritti
nascenti dall'annotazione stessa. 
    In proposito, si deve osservare che non e' esatto (come  pure  e'
stato sostenuto) che con tale  espressione  si  dovrebbero  intendere
soltanto i diritti di contestazione, sul piano cartolare, e dunque di
rettifica o di eliminazione delle annotazioni conseguenti ad  atti  o
negozi accertati come nulli, ovvero basati su errori di  calcolo.  Se
cosi' fosse, la norma sarebbe inutile, perche'  il  correntista  puo'
sempre  agire  per  far  dichiarare  la   nullita'   -   con   azione
imprescrittibile  (art.  1422  cod.  civ.)  -  del  titolo   su   cui
l'annotazione illegittima si basa e, di conseguenza, per ottenere  la
rettifica in suo favore delle  risultanze  del  conto.  Ma  non  sono
imprescrittibili  le  azioni  di  ripetizione  (art.  1422   citato),
soggette a prescrizione decennale. 
    Orbene, come sopra si e' notato l'ampia formulazione della  norma
censurata impone di affermare che, nel novero dei  «diritti  nascenti
dall'annotazione»,  devono  ritenersi  inclusi  anche  i  diritti  di
ripetere somme non dovute (quali sono quelli derivanti,  ad  esempio,
da interessi anatocistici o, comunque non spettanti,  da  commissioni
di massimo scoperto e cosi'  via,  tenuto  conto  del  fatto  che  il
rapporto  di  conto  corrente  di  cui  si  discute,   come   risulta
dall'ordinanza di rimessione del Tribunale di Brindisi, si e'  svolto
in data precedente all'entrata in vigore del  decreto  legislativo  4
agosto 1999, n. 342, recante modifiche al d.lgs. 1°  settembre  1993,
n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia). Ma
la ripetizione dell'indebito oggettivo  postula  un  pagamento  (art.
2033 cod. civ.) che, avuto riguardo alle modalita'  di  funzionamento
del  rapporto  di  conto  corrente,  spesso  si  rende  configurabile
soltanto all'atto della chiusura  del  conto  (Corte  di  cassazione,
sezioni unite, sentenza n. 24418 del 2010, citata). 
    Ne deriva che ancorare con norma retroattiva  la  decorrenza  del
termine  di   prescrizione   all'annotazione   in   conto   significa
individuarla in un momento diverso da quello in cui il  diritto  puo'
essere fatto valere, secondo la previsione dell'art. 2935 cod. civ. 
    Pertanto, la norma censurata, lungi dall'esprimere una  soluzione
ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili al  citato  art.
2935 cod. civ., ad esso  nettamente  deroga,  innovando  rispetto  al
testo previgente, peraltro senza alcuna ragionevole giustificazione. 
    Anzi, l'efficacia retroattiva della deroga rende  asimmetrico  il
rapporto contrattuale di  conto  corrente  perche',  retrodatando  il
decorso  del   termine   di   prescrizione,   finisce   per   ridurre
irragionevolmente l'arco temporale disponibile  per  l'esercizio  dei
diritti nascenti dal rapporto stesso, in particolare pregiudicando la
posizione giuridica  dei  correntisti  che,  nel  contesto  giuridico
anteriore all'entrata  in  vigore  della  norma  denunziata,  abbiano
avviato azioni dirette a ripetere somme ai medesimi  illegittimamente
addebitate. 
    Sussiste, dunque, la violazione dell'art.  3  Cost.,  perche'  la
norma censurata, facendo retroagire la disciplina in  esso  prevista,
non rispetta i principi  generali  di  eguaglianza  e  ragionevolezza
(sentenza n. 209 del 2010). 
    13. - L'art. 2, comma  61,  del  d.l.  n.  225  del  2010  (primo
periodo), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 10 del  2011,
e' costituzionalmente illegittimo anche per altro profilo. 
    E' noto che, a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del  2007,  la
giurisprudenza di questa Corte e' costante nel ritenere che le  norme
della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea  dei
diritti  dell'uomo,  specificamente  istituita  per  dare   ad   esse
interpretazione e applicazione - integrino, quali "norme interposte",
il parametro costituzionale  espresso  dall'art.  117,  primo  comma,
Cost., nella parte in cui impone la conformazione della  legislazione
interna  ai  vincoli  derivanti  dagli  obblighi  internazionali  (ex
plurimis: sentenze n. 1 del 2011; n, 196, n. 187 e n. 138  del  2010;
sulla perdurante validita' di tale ricostruzione anche dopo l'entrata
in vigore del Trattato di Lisbona, sentenza n. 80 del 2011). 
    La Corte europea dei diritti dell'uomo ha  piu'  volte  affermato
che se, in linea di principio, nulla vieta al potere  legislativo  di
regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni dalla portata
retroattiva, diritti risultanti da  leggi  in  vigore,  il  principio
della preminenza del diritto e il concetto di processo  equo  sanciti
dall'art. 6  della  Convenzione  ostano,  salvo  che  per  imperative
ragioni di interesse generale, all'ingerenza del  potere  legislativo
nell'amministrazione della giustizia, al fine di influenzare  l'esito
giudiziario di una controversia (ex plurimis: Corte europea, sentenza
sezione seconda, 7  giugno  2011,  Agrati  ed  altri  contro  Italia;
sezione seconda,  31  maggio  2011,  Maggio  contro  Italia;  sezione
quinta, 11 febbraio 2010, Javaugue contro Francia;  sezione  seconda,
10 giugno 2008, Bortesi e altri contro Italia). 
    Pertanto,  sussiste  uno  spazio,  sia  pur  delimitato,  per  un
intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i  limiti
di cui all'art. 25 Cost.),  se  giustificato  da  «motivi  imperativi
d'interesse  generale»,  che  spetta  innanzitutto   al   legislatore
nazionale e a questa Corte  valutare,  con  riferimento  a  principi,
diritti e beni di rilievo costituzionale, nell'ambito del margine  di
apprezzamento riconosciuto dalla giurisprudenza della Cedu ai singoli
ordinamenti statali (sentenza n. 15 del 2012). 
    Nel caso in esame, come si  evince  dalle  considerazioni  dianzi
svolte, non e' dato ravvisare quali  sarebbero  i  motivi  imperativi
d'interesse generale, idonei a giustificare l'effetto retroattivo. Ne
segue che risulta violato anche  il  parametro  costituito  dall'art.
117, primo comma, Cost., in relazione all'art.  6  della  Convenzione
europea, come interpretato dalla Corte di Strasburgo. Pertanto,  deve
essere dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 2,  comma
61, del d.l. n. 225 del 2010, convertito,  con  modificazioni,  dalla
legge n. 10 del 2011 (comma introdotto dalla legge  di  conversione).
La declaratoria di illegittimita' comprende anche il secondo  periodo
della norma («In ogni caso non  si  fa  luogo  alla  restituzione  di
importi gia' versati alla data di entrata in vigore  della  legge  di
conversione  del  presente  decreto»),  trattandosi  di  disposizione
strettamente connessa al primo periodo, del quale, dunque,  segue  la
sorte. 
    Ma v'e' di piu'. 
    In virtu'  d'un'interpretazione  estensiva  del  testo  normativo
teste' cit. potrebbero, pero',  risultare  abrogate  anche  tanto  le
disposizioni che rinviano per  la  determinazione  dettagliata  delle
tariffe  professionali  sia  contrattuali,  sia  giudiziarie  -  rese
retroattivamente   (ed   incostituzionalmente?)   ultrattive    dalle
disposizioni contenute nel cit. terzo comma dell'art. 9  della  legge
n. 24 marzo 2012, n. 27,  a  far  data  dall'entrata  in  vigore  del
decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, che non le prevede ne' contempla
- al solito decreto ministeriale, e cioe' pure gli articoli 60 ss.  e
64 ss. del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578,  pubblicato
sulla G.U. 5 dicembre 1933, n. 281,  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 22  gennaio  1934,  n.  36,  recante  "Ordinamento  delle
professioni di avvocato [e procuratore] e pubblicata  sulla  G.U.  30
gennaio 1934, n.  24  con  il  d.m.  n.  127/2004  d'accompagnamento;
quanto, per gli altri professionisti, dagli articoli 4 della legge  8
luglio 1980, n. 319 e 49 ss., 59, 168, 170, 275, 299  del  d.P.R.  30
maggio 2002, n.  115  con  uso  delle  Tabelle  emanate  con  decreto
ministeriale in pari data, pubblicato sulla G.U. 5  agosto  2002,  n.
182. 
    Se  la  ratio  legis  di   questa   rivoluzionaria,   formidabile
operazione    eliminatoria    -    denominata    "abrogazione     per
incompatibilita'  di  norme  di   rinvio   recettizio   a   periodici
provvedimenti  amministrativi  conformativi"  -  fosse  vera,   quale
ultrattivita'  tariffaria,  ancorche'  forse  incostituzionalmente  e
senza forse retroattiva, ne uscirebbe superstite? 
    In proposito, si ricorda che gli usi  richiamati  dall'art.  2233
c.c sono negoziali e che il giudice non e' abilitato  a  creare  "usi
normativi" ma soltanto ad applicare gli usi gia' definiti secondo  le
norme  di  legge  esistenti;  e  che  le   modificazioni   unicamente
"aggiuntive" introdotte dalla legge di conversione d'un decreto-legge
non  hanno  effetto  retroattivo  alla  data  di  pubblicazione   del
decreto-legge convertito. 
    Le enunciazioni del  precedente  capoverso  valgono  soprattutto,
pero', perche' la norma dell'art.  2233  c.c.  e'  speciale  rispetto
all'art. 2225 c.c. ed e' intenta  a  perseguire  la  ratio  legis  di
regolare il contratto di lavoro autonomo  intellettuale  privato  tra
cliente e professionista, senza impingere  nelle  spese  processuali:
tant'e' vero che, a parere dell'attuale giudicante,  le  disposizioni
contenute nel cit. terzo comma dell'art. 9 della legge  n.  24  marzo
2012, n. 27,  decorrenti  a  far  data  dall'entrata  in  vigore  del
decreto-legge  24  gennaio  2012,  n.  1,  stabiliscono   un   limite
invalicabile a pena di modalita' all'ultrattivita'  retroattiva  cit.
nella materia delle  tariffe  relative  alle  sole  spese  giudiziali
rispetto all'abrogazione di quelle volte alla libera regolamentazione
negoziale delle parti. 
    Ed allora molti  autorevoli  giuristi  si  pongono  il  terribile
quesito: "Ultrattivita' retroattiva di che!". 
3. - Forma e contenuto dell'ordinanza di rimessione. 
    Affinche'  il  giudizio  di   legittimita'   costituzionale   sia
validamente instaurato, e' necessario che l'ordinanza  di  rimessione
presenti i requisiti minimi di forma e,  soprattutto,  di  contenuto.
Per quanto attiene alla forma, la Corte ha  evitato  di  adottare  un
atteggiamento eccessivamente rigoristico: cosi, ad esempio, non si e'
ritenuta preclusiva dell'esame del  merito  la  forma  di  «sentenza»
adottata per sollevare la questione (sentenza n. 111);  analogamente,
nessuna conseguenza  ha  avuto  la  circostanza  che  il  rimettente,
anziche' «sollevare» la questione,  avesse  «ribadito»  la  questione
gia' sollevata nel medesimo giudizio (ordinanza n. 238). 
    Non  ostativo  all'ammissibilita'  delle   questioni   e'   stato
implicitamente ritenuto l'eventuale ritardo con  cui  l'ordinanza  di
rimessione sia pervenuta alla cancelleria della Corte. 
    Con  precipuo  riferimento   al   contenuto   dell'ordinanza   di
rimessione, sono numerose le decisioni con cui la  Corte  censura  la
carenza - assoluta o, in ogni caso,  insuperabile  -  di  descrizione
della fattispecie oggetto del giudizio a quo  (ordinanze  numeri  29,
90, 126, 155, 210, 226, 251, 288, 295, 297, 318, 364, 390, 396,  413,
434, 453, 472 e 476) o comunque il difetto riscontrato in ordine alla
motivazione sulla rilevanza  (sentenze  numeri  66,  303  e  461,  ed
ordinanze numeri 3, 100, 140, 153, 183, 189, 195, 196, 207, 236, 237,
256, 328, 331, 340, 418,  482).  Ad  un  esito  analogo  conducono  i
difetti riscontrabili in merito alla manifesta infondatezza (sentenza
n. 147 ed ordinanze numeri 74, 197, 212,  266  e  382),  a  proposito
della quale la sentenza n. 432 ha fornito un inquadramento di  ordine
generale,  sottolineando  che,  «ai  fini   della   sussistenza   del
presupposto di ammissibilita' [...], occorre  che  le  "ragioni"  del
dubbio di legittimita'  costituzionale,  in  riferimento  ai  singoli
parametri di cui si assume la violazione, siano articolate in termini
di sufficiente puntualizzazione e  riconoscibilita'  all'interno  del
tessuto argomentativo in cui si articola la ordinanza di  rimessione;
senza  alcuna  esigenza,  da   un   lato,   di   specifiche   formule
sacramentali,  o,  dall'altro  lato,   di   particolari   adempimenti
"dimostrativi", d'altra parte in se' incompatibili con lo specifico e
circoscritto ambito  entro  il  quale  deve  svolgersi  lo  scrutinio
incidentale di "non manifesta infondatezza"». 
    Non mancano - sono anzi piuttosto frequenti - i casi  in  cui  ad
essere carente e' la  motivazione  tanto  in  ordine  alla  rilevanza
quanto in ordine alla non manifesta infondatezza (sentenza n.  21  ed
ordinanze numeri 84, 86, 92, 123, 139, 141, 142, 166, 228, 254,  298,
312, 314, 316, 333, 381, 435 e 448), carenze che rendono talvolta  le
questioni addirittura «incomprensibili» (ordinanza n. 448) e che sono
alla base di declaratorie di (solitamente manifesta) inammissibilita'
«per plurimi motivi» (cosi', testualmente, l'ordinanza n. 316). 
    Altra condizione indispensabile onde consentire  alla  Corte  una
decisione sulla questione sollevata e' la precisa individuazione  dei
termini della questione medesima. 
    A questo proposito,  sono  presenti  decisioni  che  rilevano  un
difetto nella motivazione concernente uno o piu'  parametri  invocati
(ordinanze numeri 23, 39, 86, 126,  311  e  414),  talvolta  soltanto
enunciati (sentenze numeri 322 e 409, ed ordinanza  n.  149),  quando
non indicati (ordinanza  n.  166)  o  addirittura  errati  (ordinanze
numeri  253  e  257).  Del   pari,   sono   da   censurare   l'errata
identificazione dell'oggetto della questione - non di rado ridondante
in una carenza di rilevanza (v. supra, par. precedente) -  che  rende
impossibile lo scrutinio della Corte (sentenza  n.  21  ed  ordinanze
numeri 153, 197, 376, 436 e 454), l'omessa impugnazione  dell'oggetto
reale della censura (ordinanza n. 400), la sua mancata individuazione
(ordinanza n. 140) od il  riferimento  alle  disposizioni  denunciate
soltanto nella parte motiva della ordinanza di rinvio e non anche nel
dispositivo (sentenza n.  243  ed  ordinanza  n.  228),  alla  stessa
stregua della genericita' della questione sollevata (ordinanze numeri
23 e 328). 
    In definitiva il giudice rimettente e'  tenuto  ad  accertare  la
sussistenza  dei   presupposti   di   diritto,   necessari   a   pena
d'inammissibilita',  per  la  sottoposizione  alla   Consulta   della
questione  di  legittimita'  costituzionale  di  norme  di  legge  ed
equipollenti, mediante l'esercizio  delle  sotto  elencate  attivita'
giurisdizionali di precisa e dettagliata individuazione, riguardante: 
        a) Le norme ritenute incostituzionali; 
        b) Le norme costituzionali eventualmente violate; 
        c) La rilevanza nel processo di provenienza  della  questione
di legittimita' costituzionale (il giudice  rimettente  e'  chiamato,
nel giudizio incidentale di legittimita' costituzionale, non solo  ad
indicare le circostanze che incidono sulla rilevanza delle  questioni
sollevate, ma anche ad illustrare, quando sia il caso, i  presupposti
interpretativi costituzionalmente orientati, che implicano, nel  loro
giudizio, la necessita' di fare applicazione  della  norma  censurata
(cosi' Corte costituzionale, sentenza 18 aprile 2012, n. 95; cfr., ex
multis, l'ordinanza n. 61 del 2007 e la sentenza n. 249 del 2010); 
        d)  L'impossibilita  d'un'interpretazione  costituzionalmente
orientata  del  diritto  vivente   che   consenta   di'   ricondurre,
nell'ambito  dei  principi  sancito  dalla  Costituzione,  il   testo
promulgato delle norme "sospette"; 
        e)   La   precisa   individuazione    dell'efficacia    della
dichiarazione  d'incostituzionalita'  di  queste  ultime,   ai   fini
dell'utilita' decisoria indispensabile nel caso di specie. 
    Una mirabile sintesi dei compiti riservati al giudice  a  quo  si
rinviene nella sentenza della Corte costituzionale 15 dicembre  2010,
n. 355, da cui sono estrapolabili le sotto enumerate massime: 
        Sono  inammissibili,  per   il   carattere   ancipite   della
prospettazione  e  l'insufficiente   motivazione   in   ordine   alla
rilevanza, le questioni di legittimita' costituzionale dell'art.  17,
comma 30-ter, secondo, terzo e quarto periodo, d.l. 1° luglio 2009 n.
78, convertito, con modificazioni, in legge 3  agosto  2009  n.  102,
modificato dall'art. 1, 1° comma, lett. c), n. 1, d.l. 3 agosto  2009
n. 103, convertito, con modificazioni, in legge  3  ottobre  2009  n.
141, nella parte in cui prevede che l'azione per il risarcimento  del
danno erariale  all'immagine  delle  pubbliche  amministrazioni  puo'
essere esercitata soltanto quando  sia  intervenuta  sentenza  penale
irrevocabile di condanna per i delitti previsti nel capo I del titolo
II  del  libro  II  c.p.,  la  prescrizione  e'  sospesa  fino   alla
conclusione del  procedimento  penale  ed  e'  nullo  qualunque  atto
istruttorio o processuale compiuto in violazione di tali  previsioni,
salvo sia stata gia' pronunciata sentenza anche non  definitiva  alla
data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto,  in
riferimento agli artt. 3, 24, 1° comma, 54,  81,  4°  comma,  97,  1°
comma, 103, 2° comma, e 111 Cost. 
        E' inammissibile, per carente descrizione della  fattispecie,
la questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  17,  comma
30-ter, quarto periodo, d.l. 1° luglio 2009 n.  78,  convertito,  con
modificazioni, in legge 3 agosto 2009 n. 102, modificato dall'art. 1,
1° comma, lett. c), n. 1, d.l. 3 agosto 2009 n. 103, convertito,  con
modificazioni, in L 3 ottobre 2009 n. 141, nella parte in cui prevede
la nullita' di qualunque atto istruttorio o processuale  compiuto  in
violazione  del  divieto   dell   'esercizio   dell'azione   per   il
risarcimento  del  danno  erariale   all'immagine   delle   pubbliche
amministrazioni   prima   che   sia   intervenuta   sentenza   penale
irrevocabile di condanna per i delitti previsti nel capo I del titolo
II del libro II c.p„ in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 111 Cost. 
        E' inammissibile, per difetto di motivazione in  ordine  alla
rilevanza  ed  alla  non  manifesta  infondatezza,  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  17,  comma  30-ter,   quarto
periodo, di 1° luglio 2009 n. 78, convertito, con  modificazioni,  in
legge 3 agosto 2009 n. 102, modificato dall'art. 1, 1°  comma,  lett.
c), n. 1, d.l. 3 agosto 2009 n. 103, convertito,  con  modificazioni,
in legge 3 ottobre 2009  n.  141,  nella  parte  in  cui  prevede  la
nullita' di qualunque atto  istruttorio  o  processuale  compiuto  in
violazione del divieto dell'esercizio dell'azione per il risarcimento
del danno erariale all'immagine delle pubbliche amministrazioni prima
che sia intervenuta sentenza penale irrevocabile di  condanna  per  i
delitti previsti nel capo I del titolo  II  del  libro  II  c.p.,  in
riferimento agli artt. 3, 24 e 103 Cost. 
        Sono inammissibili,  in  quanto  il  giudice  a  quo  non  ha
dimostrato   di   aver   sperimentato   la   possibilita'   di    una
interpretazione  costituzionalmente   conforme   delle   disposizioni
impugnate, le questioni di legittimita' costituzionale dell'art.  17,
comma 30-ter, secondo e terzo periodo, d.l. 1°  luglio  2009  n.  78,
convertito, con  modificazioni,  in  legge  3  agosto  2009  n.  102,
modificato dall'art. 1, 1° comma, lett. c), n. 1, d.l. 3 agosto  2009
n. 103, convertito, con modificazioni, in legge  3  ottobre  2009  n.
141, nella parte in cui prevede che l'azione per il risarcimento  del
danno erariale  all'immagine  delle  pubbliche  amministrazioni  puo'
essere esercitata soltanto quando  sia  intervenuta  sentenza  penale
irrevocabile di condanna per i delitti previsti nel capo I del titolo
II del libro  II  c.p.,  e  la  prescrizione  e'  sospesa  fino  alla
conclusione del procedimento penale, in riferimento all'art. 3 Cost. 
4. - Le norme costituzionali violate. 
    La questione che ne occupa e' stata gia' affrontata e risolta nel
senso   dell'incostituzionalita'   dalla   sentenza    della    Corte
costituzionale  4  -  5  aprile  2012,  n.  78,  che  ha   dichiarato
costituzionalmente illegittime ed invalidate espressamente ex tunc  -
definendo nove ordinanze di rimessione esprimenti  la  non  manifesta
infondatezza dei dubbi di  legittimita'  costituzionale  al  riguardo
-dichiarando  l'incostituzionalita'  dell'art.  2,  comma  61°,   del
decreto-legge  29  dicembre  2010,  n.  225   (c.d.   Milleproroghe),
convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011,  n.  10,
limitatamente al testo normativo contemplato dal comma aggiunto dalla
legge  di  conversione),  il  quale  prevede  che  "In  ordine   alle
operazioni bancarie regolate in conto corrente  l'articolo  2935  del
codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai
diritti nascenti dall'annotazione in conto  inizia  a  decorrere  dal
giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non  si  fa  luogo  alla
restituzione d'importi gia' versati alla data di  entrata  in  vigore
della legge di conversione del presente decreto". 
    Secondo  la  Corte,  la  norma  censurata  violava,  con  la  sua
efficacia retroattiva, il canone generale della ragionevolezza  delle
norme (art. 3 Cost.). 
    La norma, infatti, era intervenuta sull'art. 2935  cod.  civ.  in
assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo,
perche',  in  materia  di  decorrenza  del  termine  di  prescrizione
relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, a parte
un indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza di merito, si
era  ormai   formato   un   orientamento   maggioritario   in   detta
giurisprudenza, che aveva trovato riscontro in sede  di  legittimita'
ed  aveva  condotto  ad  individuare  nella  chiusura  del   rapporto
contrattuale o nel pagamento solutorio (od anche ripristinatorio)  il
dies a quo per il decorso del suddetto termine. 
    La  norma   censurata,   lungi   dall'esprimere   una   soluzione
ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili al  citato  art.
2935 cod. civ., ad esso nettamente derogava,  innovando  rispetto  al
testo previgente  e  del  decreto-legge  convertito,  peraltro  senza
alcuna ragionevole giustificazione. 
    Cio' detto,  secondo  la  Corte,  l'efficacia  retroattiva  della
deroga rendeva asimmetrico il rapporto contrattuale di conto corrente
perche', retrodatando il decorso del termine di prescrizione,  finiva
per  ridurre  irragionevolmente  l'arco  temporale  disponibile   per
l'esercizio dei diritti nascenti dal rapporto stesso, in  particolare
pregiudicando  la  posizione  giuridica  dei  correntisti  che,   nel
contesto  giuridico  anteriore  all'entrata  in  vigore  della  norma
denunziata, abbiano  avviato  azioni  dirette  a  ripetere  somme  ai
medesimi illegittimamente addebitate. 
    Sussisteva, dunque, la violazione dell'art. 3  Cost,  perche'  la
norma censurata, facendo retroagire la disciplina in  esso  prevista,
non rispettava i principi generali di eguaglianza  e  ragionevolezza,
stabiliti dall'art. 3 Cost. 
    Sennonche',     le     disposizioni     legislative     censurate
d'incostituzionalita' violano anche altre norme della Costituzione, e
cioe' gli articoli 3, 24, 101, 102, 104,  111  e  117,  primo  comma,
della Costituzione. 
    Ad avviso del rimettente, la norma censurata viola  i  menzionati
parametri costituzionali, in primo luogo, per contrasto col principio
di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto: 
    Infatti, la norma censurata si porrebbe, altresi',  in  contrasto
con: 
        A) Gli articoli 2, prima  parte,  10,  primo  comma,  ed  11,
seconda  parte,  Cost.   per   flagrante   violazione   del   diritto
fondamentale dell'Uomo ad un "processo equo", trasposto in termini di
"giusto  processo",  secondo  il  significato   a   tal   espressione
attribuito dall'art. 111 Cost., e dall'uniforme giurisprudenza  della
CEDU e della C.G.C.E., ai sensi dell'art. 6 della Convenzione di Roma
4 novembre 1950, del Protocollo addizionale di Parigi 20 marzo  1953,
ratificati dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata  sulla  G.U.
24  settembre  1955,  n.  224  nonche'  degli  ulteriori   Protocolli
addizionale successivi,  tutti  ratificati  per  legge,  non  potendo
decidere de plano il  giudicante  sulla  precisa  determinazione  dei
diritti ed obblighi delle parti, in una controversia civile  insorta,
al pagamento delle spese processuali, una volta abrogate  le  tariffe
professionali e non ancora stabiliti i parametri d'esse sostitutivi. 
        B) L'art. 24  Cost.,  sotto  il  profilo  dell'inviolabilita'
della difesa del cittadino in ogni stato  e  grado  del  giudizio  ed
indefettibilita' della tutela giurisdizionale,  in  quanto  la  prima
parte di essa farebbe decorrere  l'ultrattivita'  tariffaria  da  una
scadenza  cronologicamente   retroatratta,   esulante   dalla   sfera
conoscitiva e di conoscibilita' del cliente e del difensore,  nonche'
- in base ad  una  possibile  opzione  interpretativa,  peraltro  (ad
avviso del rimettente) suscettibile di essere esclusa con  un'esegesi
della norma costituzionalmente orientata - introdurrebbe  una  palese
disparita' di trattamento retroattiva nella liquidazione delle  spese
processuali nei confronti di quelle parti che hanno avuto la sfortuna
d'imbattersi in provvedimenti liquidatori, non prima,  ma  durante  e
dopo l'entrata in vigore del decreto-legge  cit.,  senza  contare  la
condivisa opinione, evocata nella sentenza del Tribunale di Prato  n.
1304 del 2011, secondo cui l'efficacia retroattiva della declaratoria
d'incostituzionalita' del giudicato sarebbe eccepibile  con  apposita
istanza - azione di parte, anche avverso un decreto ingiuntivo od una
sentenza passata in  giudicato,  purche',  ovviamente  suffragata  da
un'ordinanza da parte del giudice adito in  cui  si  affermi  la  non
manifesta infondatezza della questione insorta. 
        C) Gli articoli 101,  102  e  104  Cost.,  sotto  il  profilo
dell'integrita' delle attribuzioni  costituzionalmente  riservate  al
potere giudiziario,  trattandosi  di  stabilire  «se  la  statuizione
contenuta nella norma censurata integri  effettivamente  i  requisiti
del precetto di fonte legislativa, come tale dotato dei caratteri  di
generalita' e astrattezza, ovvero sia diretta ad incidere su concrete
fattispecie sub iudice, a  vantaggio  di  una  delle  due  parti  del
giudizio»; 
        D) L'art. 111 Cost., sotto il profilo  del  giusto  processo,
sub specie della parita' delle armi, in quanto  la  norma  censurata,
supportata da una espressa previsione di retroattivita',  verrebbe  a
sancire  -  se  non  altro  dalle  ipotesi  in  cui  dalle   indebite
annotazioni della banca sia gia' decorso un decennio  -  la  paralisi
processuale  della  pretesa  fatta  valere  da  chi  abbia  agito  in
giudizio, esperendo una qualsiasi impugnazione  corrente  ovvero  una
correzione d'errore materiale degli importi, 
        E) Infine, la norma di cui si tratta violerebbe  l'art.  117,
primo comma,  Cost.,  attraverso  la  violazione  dell'art.  6  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), come diritto ad un giusto processo,  in
quanto  il  legislatore  nazionale,  in  presenza  di   un   notevole
contenzioso e di un orientamento della Corte di cassazione contrario,
avrebbe interferito nell'amministrazione della giustizia,  assegnando
alla norma, in assenza di «motivi imperativi di interesse  generale»,
come enucleati dalla giurisprudenza della Corte europea  dei  diritti
dell'uomo, un significato retroattivo svantaggioso per i contendenti. 
5. - L'efficacia retroattiva della declaratoria d'incostituzionalita'
delle norme di legge. 
    Abrogazione  e  declaratoria  di  incostituzionalita'  non   sono
termini  equivalenti;  anzi,  di  piu',  sono   termini   del   tutto
eterogenei. 
    L'abrogazione costituisce effetto giuridico  di  un  atto  (legge
abrogatrice); dal canto suo,  la  declaratoria  d'incostituzionalita'
sta ad esprimere la formula di un atto (pronuncia  «di  accoglimento»
della Corte)  produttivo  di  effetti  giuridici.  Dunque,  porsi  un
problema di differenza  o  di  somiglianza  tra  l'abrogazione  e  la
declaratoria  d'incostituzionalita'  sarebbe,  ut  sic,   porsi   uno
pseudo-problema. 
    Al contrario un problema del genere si pone ancora  (entro  certi
limiti) come attuale, ove per essere termini omogenei  si  mettano  a
confronto:   o   la    legge    abrogativa    e    la    declaratoria
d'incostituzionalita', per  quanto  si  riferisce  specificamente  al
presupposto dell'una e dell'altra; oppure l'abrogazione e gli effetti
che scaturiscono dalla declaratoria d'incostituzionalita'. 
    Che   tra   la   legge   di   abrogazione   e   la   declaratoria
d'incostituzionalita' esista un qualche punto di contatto,  non  pare
da mettere seriamente in dubbio (cfr., in generale, sui rapporti  tra
l'abrogazione  e  la  declaratoria   di   incostituzionalita',   cfr.
Pugliatti  op.  ult.  cit.,  151  ss.;  Cereti,  Corso   di   diritto
costituzionale, Torino, 1953,  440  ss.  Per  ulteriore  bibliografia
sull'argomento,  v.  infra,  nt.  117.  Cfr.   anche   la   Relazione
dell'onorevole Tesauro sul progetto di legge n. 87 del 1953, in  Atti
parl. Cam., II legislatura, doc. n. 469 A (17 aprile  1953),  p.  38,
ripresa successivamente dall'Abbamonte,  Il  processo  costituzionale
italiano, I, Napoli, 1957, 245). 
    Entrambe, infatti, rappresentano  un  rimedio  avverso  un  vizio
della legge: piu'  precisamente,  la  legge  abrogatrice  postula  un
giudizio negativo  sull'attuale  opportunita'  della  legge  abrogata
(cfr. la tesi proposta da Costantino Mortati, Abrogazione legislativa
ed instaurazione di un nuovo ordinamento costituzionale,  in  Scritti
in onore di Pietro Calamandrei, V, Padova, 1958,  103  ss.:  siffatta
teoria,  che  riprende  concetti  amministrativistici   [per   tutti,
Guicciardi, L'abrogazione degli atti amministrativi, in  Raccolta  di
scritti di diritto pubblico in onore di G. Vacchelli,  Milano,  1938,
268],  sottolinea  come  il  potere  di   abrogare   nasca   da   «un
potere-dovere  di  rivalutazione  delle  circostanze  che  ebbero   a
promuovere l'emanazione degli  atti,  onde  accertare  la  permanenza
della loro idoneita' a soddisfare il  pubblico  interesse»]  Mortati,
op. ult., cit., 112]), mentre la  declaratoria  d'incostituzionalita'
esprime un giudizio negativo sulla legittimita' costituzionale  della
legge che ha formalo oggetto del  controllo  per  opera  della  Corte
costituzionale. 
    A questo  punto,  pero',  la  somiglianza  cessa  e  subentra  la
differenza tra le due figure: la legge abrogativa colpisce una  legge
valida   ancorche'    viziata    nel    merito;    la    declaratoria
d'incostituzionalita', al contrario, colpisce una  legge  (o  singole
sue disposizioni) invalida perche' difforme dalla norma parametro  di
valore costituzionale, a prescindere dall'attuale opportunita'  della
legge medesima. 
    Per un completa rassegna di  dottrina  e  di  giurisprudenza  sul
problema degli effetti delle pronunce dichiarative di  illegittimita'
costituzionale offre Lipari, Orientamenti in tema  di  effetti  delle
sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, in Giust,  civ.,
1963, I, 2225 ss.) e che in sede giurisprudenziale  si  trova  ancora
oggi accolta dalla sola  Corte  di  cassazione  penale,  per  cui  le
pronunce in questione sarebbero  prive  di  una  qualsiasi  efficacia
retroattiva,  nessuna  differenza   sostanziale   esisterebbe   nella
normalita' dei casi tra l'abrogazione e gli effetti che  scaturiscono
dalla declaratoria d'incostituzionalita' nei giudizi incidentali. 
    Ex adverso, ad ammettere la  tesi  che  in  ordine  all'efficacia
delle pronunce «di  accoglimento»  venne  proposta  da  un'autorevole
dottrina (Calamandrei in La illegittimita' costituzionale delle leggi
nel processo civile, Padova, 1950, specialmente pp. 92-98,  condivisa
dal Redenti, Legittimita' delle leggi e Corte costituzionale, Milano,
1957, 77 e da Giuseppe Abbamonte, Manuale di diritto  amministrativo,
I edizione, p. 244 ss. passim) e che  in  sede  giurisprudenziale  si
trova ancora oggi accolta dalla sola Corte di cassazione penale (cfr.
Cass., sez. un., 27 ottobre 1962, in Riv. it. dir. proc. pen.,  1963,
229 ss., con nota critica di  Gorlani,  Sulla  sorte  delle  sentenze
pronunciate da un  giudice  successivamente  ritenuto  non  naturale;
Cass. 16 luglio 1963, ivi, 986, con nota  critica  di  Marvulli,  Gli
effetti della declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art.
234 comma 2° c.p.p. sulle istruzioni precedentemente  condotte  dalla
sezione istruttoria; Cass., sez. IV, 6 luglio 1965, ivi, 1965,  1101;
Cass., sez. IV, 20 ottobre 1965,  ivi,  1101,  con  nota  critica  di
Cavallari, La dichiarazione d'illegittimita' costituzionale dell'art.
392 comma 1° c.p.p. e i suoi effetti sulle istruzioni  sommarie  gia'
compiute; Cass., sez. un., 11 dicembre 1965, in Foro it.,  1966,  II,
65, con nota critica di  Pizzorusso,  Coincidentia  oppositorum?;  in
Giur. it., 1966, II, 81, con nota critica di Chiavario, Primi appunti
in margine alla sentenza delle Sezioni penali unite sulla sorte delle
istruzioni sommarie compiute senza garanzie per la difesa, e in  Riv.
dir. proc., 1966, 118, con nota critica  di  Bianchi  D'Espinosa,  La
«cessazione di efficacia» di norme dichiarate  incostituzionali.  Per
ulteriore giurisprudenza, cfr. Podo, Successione di leggi penali,  in
Nss.D.I., XVIII, 1971, 684 nt. 9), per cui le pronunce  in  questione
sarebbero prive  di  una  qualsiasi  efficacia  retroattiva,  nessuna
differenza sostanziale esisterebbe  nella  normalita'  dei  casi  tra
l'abrogazione e  gli  effetti  che  scaturiscono  dalla  declaratoria
d'incostituzionalita' nei giudizi incidentali. 
    Ma ad una simile tesi si oppone anzitutto il diritto positivo. 
    Infatti, se molti dubbi o molte perplessita'  suscita  l'opinione
(avanzata da Marcello Gallo, La «disapplicazione» per la  invalidita'
costituzionale della legge penale incriminatrice, in Studi  in  onore
di E. Crosa, II, Milano 1960, 916 ss., la cui esposizione confutativa
trovasi in Pierandrei, Corte costituzionale, in questa  Enciclopedia,
X, 968 nt. 368) secondo cui anche dal solo  art.  136  Cost.  sarebbe
possibile dedurre l'efficacia retroattiva della pronuncia che qui  ci
occupa, nessun dubbio e nessuna perplessita' puo' esserci  sul  punto
che lo stesso art. 136, disponendo  che  in  seguito  a  declaratoria
d'incostituzionalita' «la norma cessa di avere efficacia  dal  giorno
successivo   alla    pubblicazione    della    decisione»,    nemmeno
implicitamente vieta la retroattivita' medesima (Pierandrei). 
    D'altra  parte,   a   sancire   implicitamente   ma   chiaramente
l'efficacia retroattiva della  pronuncia  «di  accoglimento»  stanno,
ciascuna per suo conto  e  a  piu'  forte  ragione  ancora  l'uno  in
combinato disposto con l'altro, l'art. 1 della legge cost. 9 febbraio
1948, n. 1, nonche' gli artt. 23 comma 2 e 30 comma  4  l.  cost.  11
marzo 1953, n. 87; l'art. 1 legge  cost.  n.  1,  cit.,  perche'  nel
fissare il principio della  cosiddetta  «incidentalita'»,  presuppone
che gli effetti della pronuncia reagiscano  almeno  sul  giudizio  in
corso (cfr. Cappelletti, La pregiudiziale costituzionale nel processo
civile, Milano, 1957, 82 ss.); l'art. 23, capoverso o secondo  comma,
della legge cost. n. 87 del 1953, cit., perche' spinge alla  medesima
deduzione nel richiedere e la «rilevanza» della proposta questione in
ordine alla definizione del processo pendente, e la  sospensione  del
medesimo in attesa della pronuncia della  Corte  (come  riconosce  lo
stesso Calamandrei, op. cit., 92.). 
    Da qui a dire che per essere retroattiva in un caso la  pronuncia
della Corte retroagisce in ogni caso, il passo e' breve ed  in  breve
si e' compiuto (cfr. Pierandrei, Le  decisioni  degli  organi  «della
giustizia costituzionale» [Natura, efficacia, esecuzione],  in  RISG,
1954,  101  ss.;  Aldo  Mazzini  Sandulli,  in  Manuale  di   diritto
amministrativo, passim, ed in  Natura,  funzione,  ed  effetti  delle
pronunce della Corte costituzionale sulla illegittimita' delle leggi,
in Riv. trim. dir. pubbl., 1959, 42, Per ulteriore dottrina  conforme
v. Lipari, op. cit., 2130 nt. 16.). 
    A conferma di questa ulteriore deduzione sembra stare, del resto,
l'art. 30 comma 4 1. cost. n. 87, cit. Detto articolo, stabilendo che
«Quando in applicazione della norma  dichiarata  incostituzionale  e'
stata pronunziata  sentenza  irrevocabile  di  condanna,  ne  cessano
l'esecuzione e tutti gli effetti penali», stabilisce un'eccezione (in
materia penale) all'intangibilita'  del  giudicato  che  sarebbe  del
tutto priva di senso, ove la declaratoria  d'incostituzionalita'  non
fosse retroattiva e retroattivamente efficace erga omnes. 
    In secondo luogo, si oppone alla tesi, che  qui  si  confuta,  il
rilievo  secondo  cui  la   Corte   costituzionale,   autorevolissima
interprete  della  Costituzione,  ha,  con  giurisprudenza   costante
(esplicitamente, cfr. C. cost. 29 dicembre 1966,  n.  127,  in  Giur.
cost., 1966, 1697; da ultimo, implicitamente, C. cost. 2 aprile 1970,
n. 49, ivi, 1970, 555, cit.; conformi la giurisprudenza dominante dei
giudici comuni e del Consiglio di Stato: fra le numerose altre,  cfr.
Cass., sez. I, 16 settembre 1957, n. 3491, in Giur. it., 1957, I,  1,
1211; Cass. 23 marzo 1959, n. 876, ivi, 1959, I, 1, 1335; Cass., sez.
un., 22 luglio 1960, n. 2077, in Foro amm.,  1960,  II,  131;  Cass.,
sez. I, 27 marzo 1963, n. 757, in Giur. it., 1963, I, 1, 1112; Cass.,
sez. I, 16 giugno 1965, n. 1251, in Giust. civ., 1965, I, 2239; Cons.
St., ad. plen., 10 aprile 1963, n. 8, ivi, 1963, I, 2220 e  2276;  e,
piu' di recente, Cons. St., sez. VI, 18 marzo 1964, n. 247, in  Cons.
St., 1964, I, 135; Cons. St., sez. IV, 20 ottobre 1964, n.  1044,  in
Foro amm., 1964, I, 2, 1111.), attribuito all'art. 136 -  anche  alla
luce degli altri sopraddetti - il  significato  di  riconoscere  alla
pronuncia dichiarativa d'illegittimita' un'efficacia che  retroagisce
fin sulla soglia dei «rapporti esauriti», anche avverso un  giudicato
su  norme  dichiarate  incostituzionali  in  seguito  (giurisprudenza
uniforma per quanto consta dalla remota sentenza della Corte cost.  2
aprile 1970, n. 49, in Giur. cost., 1970, 555, cit.). 
    Una volta che si respinga la tesi dell'efficacia  ex  nunc  e  ad
ammettere la tesi della retroattivita',  emerge  subito  evidente  la
differenza sostanziale che separa l'abrogazione dagli  effetti  delle
pronunce d'accoglimento. 
    Infatti, mentre nel caso di abrogazione, infatti, la legge (o  la
norma)  abrogata  conserva  piena  applicabilita'  sulle  fattispecie
insorte nel tempo della sua vigenza  (secondo  il  principio  "tempus
regit actum" o di storicita' delle pronunce giurisdizionali) nel caso
invece  di  una  sentenza  d'accoglimento  la  legge  (o  la   norma)
dichiarata incostituzionale non solo perde la propria  applicabilita'
sull'intera serie delle fattispecie da essa legge (o norma) prevista,
ma  inoltre  ne  cessa  ogni  effetto  gia'  prodotto  che  non   sia
irreversibile, neppure salvando i giudicati  sostanziali  antecedenti
(cfr. Tribunale di Prato, sentenza  inedita  n.  1304/2011  e  cosi',
Crisafulli, Lezioni, cit., II, t. 1, 174). 
    Altro  e  piu'  complesso  discorso  viene  da  fare,  se   dalla
normalita' dei casi si passa al caso eccezionale dell'abrogazione che
sia nel contempo espressa ed espressamente retroattiva. 
    E ovvio che ogni dubbio ed ogni perplessita' verrebbe sul punto a
cadere, qualora esatta  fosse  la  tesi  (propugnata  da  Garbagnati,
Sull'efficacia delle decisioni della Corte costituzionale, in Scritti
giuridici in onore di F.  Carnelutti,  IV,  Padova,  1950,  201  ss.;
Valerio Onida, Illegittimita' costituzionale di leggi limitatrici  di
diritti e decorso del termine di decadenza, in Giur. cost., 1965, 514
ss.; Onida, In tema di  interpretazione  delle  norme  sugli  effetti
delle pronunce di incostituzionalita', ivi, 1415 ss.) secondo cui  la
legge  incostituzionale  sarebbe  nulla   od   inesistente   e   solo
dichiarativa di  codesta  nullita-inesistenza  sarebbe  la  pronuncia
d'accoglimento. 
    Difatti, ove cosi' fosse, la differenza tra le due figure sarebbe
netta e palese giacche', al contrario che  nell'abrogazione  espressa
ed espressamente retroattiva, nessun problema  di  «rimozione»  degli
effetti riconducibili alla legge colpita si  porrebbe  nei  confronti
della declaratoria d'incostituzionalita', dato che l'atto legislativo
(se  ed  in  quanto)  incostituzionale   sarebbe   fin   dall'origine
sprovvisto di efficacia e, dunque, privo di effetti giuridici. 
    Ma, come pure l'altra sopra vista,  nemmeno  questa  tesi  sembra
resistere all'obiezione che ad essa  viene  da  un  duplice  rilievo.
Anzitutto, che l'atto  nullo-inesistente  non  produce  assolutamente
alcun  effetto,  mentre  per  comune  consenso  piu'  di  un  effetto
irrevocabile produce o puo' produrre la legge incostituzionale (cosi'
Franco Modugno, Problemi e pseudo-problemi, cit., 667 s.). 
    Secondo poi, che la formula di  cui  al  comma  1  dell'art.  136
implica, se ha un senso, che la legge incostituzionale sia  non  gia'
da sempre inefficace perche' nulla, ma  medio  tempore  efficace  per
quanto invalida (cfr. Modugno, Esistenza della legge incostituzionale
e autonomia del potere esecutivo, in Giur. cost., 1963, 1744.). 
    Confermata per altra via l'efficacia ex tunc della  dichiarazione
di illegittimita', ci  si  torna  a  chiedere  in  cosa  consista  la
differenza (ammesso che differenza vi sia) che separa  un'abrogazione
espressa ed espressamente retroattiva dagli effetti  della  pronuncia
d'accoglimento.  Precisamente,  il  problema  si  pone  nei  seguenti
termini:   atteso   che   dalla   retroazione   della    declaratoria
d'incostituzionalita'  restano   esclusi   i   cosiddetti   «rapporti
esauriti», si tratta di vedere se lo stesso limite  valga  anche  per
l'abrogazione retroattiva, oppure no. Nel caso l'area  dei  «rapporti
esauriti»  debba  assumersi  come  sottratta  e  all'efficacia  della
pronuncia  d'accoglimento  e  all'abrogazione  retroattiva,   nessuna
differenza sostanziale  esisterebbe  tra  le  due  figure;  nel  caso
opposto, invece,  la  differenza  in  questo  proprio  starebbe,  che
l'ambito  dei  «rapporti  esauriti»  sarebbe  travalicabile  dall'una
(ossia dall'abrogazione retroattiva) ed invalicabile dall'altra. 
    E nell'eventualita' che si pervenga a  quest'ultima  conclusione,
occorre ulteriormente spiegare, anche in termini piu' generali, quale
sia il fondamento e insomma la ratio della differenza medesima. 
    Ora che una legge  retroattiva  possa  incidere,  oltre  che  sui
«diritti quesiti», anche sui «rapporti esauriti» sembra ormai ammesso
dalla piu' recente e piu' avveduta dottrina, tra cui Paladin, Appunti
sul principio di irretroattivita' delle leggi, in Foro amm., 1959, I,
946  ss.;  Grottanelli  De'  Santi,  Profili   costituzionali   della
irretroattivita' delle leggi, Milano,  1970,  47  ss.;  nel  medesimo
senso,  in  buona  sostanza,  Sandulli  A.M.,  Il   principio   della
irretroattivita' delle leggi e la Costituzione, in Foro  amm.,  1947,
II, 86 ss. 
    In giurisprudenza, per la tesi che la retroattivita' della  legge
si estende anche ai «rapporti esauriti» ove cio'  sia  esplicitamente
disposto dal legislatore, cfr. Cons. St., sez. IV, 22 dicembre  1948,
in Foro amm., 1949, I 2, 215: «Il  principio  della  irretroattivita'
delle norme legislative  non  costituisce  un  limite  costituzionale
all'attivita' del legislatore, dato che nella Costituzione vigente e'
stato,   soltanto,   sancito   all'art.   25   il   principio   della
irretroattivita' della legge penale. Il legislatore,  pertanto,  puo'
disporre che la legge abbia efficacia retroattiva.... Peraltro  anche
l'efficacia della legge retroattiva non si estende ai rapporti che si
siano  gia'  completamente  esauriti  per   transazione,   pagamento,
regiudicata, decadenza o per qualsiasi altra ipotesi che  costituisca
preclusione alla possibilita' di controversia...  In  deroga  a  tale
principio generale, una determinata legge retroattiva puo' anche  far
rivivere  cio'  che  era  gia'  estinto,  ma  occorre  per  cio'  una
particolare disposizione...». 
    Nello stesso senso, militano C. conti 14 gennaio 1948, in Riv. C.
conti, 1948, III, 82; Cons. St., sez. IV, 19  giugno  1959,  in  Foro
amm., 1959, I, 950. Per la tesi ancora piu' estrema (e  piu'  comune)
secondo cui la retroattivita' della legge  si  estende  ai  «rapporti
esauriti»  ogni  volta  che  le  disposizioni  di  questa   risultino
evidentemente incompatibili con la persistenza dei  rapporti  stessi,
cfr. Cass. 28  febbraio  1948,  in  Foro  pad.,  1948,  I,  490:  «E'
indiscutibile  che  la  legge  possa  modificare,  ridurre  o   anche
sopprimere un diritto quesito. A cio', di solito, essa si e'  indotta
in tempi eccezionali e per gravi esigenze di interesse generale, e lo
ha  fatto  o  espressamente,  o  con  una  disposizione   chiaramente
incompatibile con la ulteriore  integrale  persistenza  del  suddetto
diritto»; conf, per tutte, Cass. 5 maggio 1958, n.  1467,  in  Giust.
civ., 1958, I, 2175.  Ulteriore  giurisprudenza  in  Grottanelli  De'
Santi, op. cit., 51 nt. 98.  V.  anche  Capurso,  Il  problema  della
posizione di norme giuridiche sulla irretroattivita' delle leggi,  in
Rass. dir. pubbl., 1965, 426 ss. 
    Solo, da essa si richiede,  perche'  cio'  avvenga,  un  espresso
disposto della legge in questione. 
    Ma, qualora fossero esatte tanto  la  prima,  quanto  la  seconda
tesi, asserire apoditticamente (come di frequente  si  dice)  che  la
clausola espressa serve a tutela della  certezza  del  diritto  (cfr.
Grottanelli  De'  Santi,  op.  cit.,  21  ss.  e   41   ss.)   ovvero
dell'affidamento del privato nell'ordine  giuridico  positivo,  getta
un'ombra  di  dubbio  e  demolisce   l'intera   costruzione   teorica
avversata. Dato, infatti, che certezza del diritto e affidamento  del
privato non sono (per consenso ormai pressoche' unanime) principi  di
rango costituzionale ma valori politici e mere direttive, si potrebbe
allora piu' esattamente dire che, da un punto di vista giuridico,  la
clausola espressa sarebbe richiesta come necessaria non gia' nel caso
che la legge retroattiva incida sui «rapporti esauriti»,  bensi'  nel
caso opposto. Che  se  poi  si  volesse  insistere  nell'affermazione
secondo cui certezza del  diritto  e  affidamento  del  privato  sono
principi di rango costituzionale, allora nemmeno la clausola espressa
basterebbe a derogarli. 
    In realta', l'esattezza della tesi che la legge  retroattiva  (di
pura abrogazione, nel caso che andiamo esaminando) possa incidere sui
«rapporti esauriti» e  che  per  fare  questo  occorra  una  clausola
espressa, sembra vada posta su tutt'altro ordine di idee;  ordine  di
idee che, a contrario,  vale  anche  a  spiegare  perche'  quanto  e'
possibile  alla  legge  retroattiva  non  e'  invece  possibile  alla
pronuncia d'accoglimento. 
    A questo proposito, giova muovere da un primo rilievo. La formula
«rapporti esauriti» sta ad esprimere,  se  non  ci  inganniamo,  quei
rapporti e piu' in generale quelle situazioni che  abbiano  acquisito
carattere di definitiva stabilita' nell'orbita del  diritto  (Intorno
ai criteri da assumere per stabilire quando si  sia  in  presenza  di
«rapporti esauriti», cfr. Barile P., La parziale retroattivita' della
sentenza della Corte costituzionale in una pronuncia sul principio di
eguaglianza, in Giur. it., 1960, 908 ss.; La  Valle,  Successione  di
leggi, inNss.D.L, XVIII, 1971, 640 ss.). 
    D'altra parte,  questo  carattere  di  definitiva  stabilita'  si
produce sui rapporti  medesimi  come  effetto  che  una  disposizione
generale di legge collega a determinati fatti  causativi.  A  mo'  di
esempio, l'inerzia del soggetto attivo durata un  tempo  prestabilito
dalla legge comporta,  a  norma  dell'art.  2934  comma  1  c.c.,  la
prescrizione  del   diritto   che   ne   sia   oggetto   e,   dunque,
l'«esaurimento» del rapporto o dei rapporti che ad esso sottostanno. 
    Lo stesso concetto va ribadito riguardo ai  rapporti  coperti  da
giudicato (ex art. 2909 c.c. e 324 c.p.c.), da transazione  (ex  art.
1965 comma 1 c.c.), ecc. 
    Da  qui   nasce   un   secondo   rilievo   critico,   chiaramente
insuperabile. 
    Posto che un rapporto assume carattere di  definitiva  stabilita'
nel modo che s'e' visto, la legge retroattiva  allora  puo'  incidere
sui «rapporti esauriti», quando contenga una  clausola  espressa  cui
deve riconoscersi una duplice valenza: quella, anzitutto,  di  recare
una deroga (limitatamente ai rapporti  nati  dall'applicazione  della
legge o norma abrogata) alla disposizione generale di legge che ad un
determinato fatto causativo collega l'effetto di  rendere  definitivi
(per prescrizione, transazione, cosa giudicata, ecc.)  quei  rapporti
che ad esso effetto soggiacciono; quella, poi, di  rendere  possibile
la riconversione dei rapporti «esauriti» in rapporti «pendenti»,  cui
si estende l'efficacia retroattiva della legge. 
    Ove  ci  si  muova  in  quest'ordine  di  idee,  si  puo'   anche
comprendere  perche'  mai  l'area  dei  «rapporti  esauriti»  rimanga
esclusa dagli effetti della pronuncia d'accoglimento. 
    Quest'ultima,   inflitti,   mentre   rende    inapplicabile    la
disposizione incostituzionale e ne  rimuove  gli  effetti,  non  puo'
invece rimuovere (per essere sentenza e non legge)  quel  particolare
effetto  che  consiste  nella  definitiva  stabilita'  che  viene  al
rapporto dal verificarsi di un evento previsto all'uopo  da  altra  e
diversa disposizione di legge; a meno che si tratti di una stabilita'
solo  apparentemente  definitiva,  come  sarebbe   nel   caso   della
prescrizione  e  della  decadenza  ove  incostituzionale   fosse   la
disposizione che stabilisce il termine dell'una o dell'altra,  oppure
l'atto (per  vizio  di  forma  o  di  procedimento)  dal  quale  essa
disposizione promana. 
6. - La rilevanza. 
    Consiste nel nesso di pregiudizialita' - dipendenza tra  giudizio
a quo e giudizio di legittimita' costituzionale. 
    Infatti, caratteristica peculiare del giudizio in via incidentale
e' il  rapporto  di  pregiudizialita'  che  collega  il  processo  di
costituzionalita' con il processo a quo: affinche' una  questione  di
legittimita'    costituzionale    sia     ammissibile,     condizione
imprescindibile e' che essa sia «rilevante» ai fini  della  decisione
del processo nel corso del quale la questione e' stata sollevata. 
    In  realta',  pero',  alquanto  dibattuta  in  dottrina   e'   la
problematica  che  investe  il  requisito   della   «rilevanza»,   in
particolare con riferimento al fatto se essa (rilevanza) vada  intesa
come  mera  applicabilita'  della  legge   impugnata   nel   giudizio
principale,  o  se  piuttosto,  vada  configurata  alla  stregua   di
influenza della decisione della Corte sulle sorti del giudizio a quo. 
    La questione, lungi dall'investire un profilo meramente  teorico,
comporta importanti conseguenze sul versante pratico  concernenti  la
tutela del  diritto  obiettivo  e  la  salvaguardia  delle  posizioni
soggettive implicate nel giudizio di origine. 
    Prima di esaminare il caso di specie  e'  opportuno  fare  alcune
premesse sull'istituto della rilevanza. Il requisito della  rilevanza
e' esplicitamente previsto dall'art. 23 della legge n. 87  del  1953,
che prevede l'obbligo per il giudice di  sollevare  la  questione  di
costituzionalita' «qualora il  giudizio  non  possa  essere  definito
indipendentemente dalla risoluzione della questione  di  legittimita'
costituzionale». 
    La dottrina e' concorde nel ritenere che  tale  disposizione  non
costituisca  altro  che  una  esplicitazione  di   quanto   contenuto
nell'art. 1 della legge  costituzionale  n.  1  del  1948,  il  quale
prevede la possibilita'  di  adire  la  Corte  solo  «nel  corso  del
giudizio». 
    In  altre  parole,  l'art.  23  menzionato,   non   farebbe   che
specificare  «una  realta'  gia'  insita  nel  sistema»  essendo   la
rilevanza un requisito consustanziale alla logica stessa del giudizio
incidentale. 
    Tuttavia, come evidenziato  da  Massimo  Luciani,  «dire  che  la
rilevanza sta nel sistema gia' prima della legge n. 87, in quanto  si
ricollega naturaliter  al  principio  dell'accesso  incidentale,  non
significa allo stesso tempo dire cosa si intende per rilevanza» (cfr.
fra i tanti V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale,  Padova
1984, 280; M. Luciani, Le  decisioni  processuali  e  la  logica  del
giudizio  incidentale,  Padova  1984,  101;   L.   Paladin,   Diritto
costituzionale, Padova 1995, 721. 
    La   prevalente   dottrina    intende    la    rilevanza    quale
pregiudizialita' costituzionale, di modo che «la questione deve avere
ad  oggetto  disposizioni  e  norme  delle  quali  si  abbia  a  fare
applicazione in quel giudizio», rappresentando «il legame fra il caso
e  il   giudizio   di   costituzionalita',   indispensabile   perche'
quest'ultimo possa iniziare». 
    Recentemente la Corte con l'ord. n.  17  del  1999  e'  ritornata
sulla problematica, con una pronuncia di  inammissibilita'  emessa  a
fronte  del  fatto  che  «la  sollevata  questione  di   legittimita'
costituzionale si presenta impropriamente come azione diretta  contro
una legge, dal momento che l'eventuale pronunzia di  accoglimento  di
questa Corte verrebbe a concretare di per se' la tutela richiesta  al
rimettente e ad esaurirla,  mentre  il  carattere  di  incidentalita'
presuppone necessariamente che il petitum del giudizio nel corso  del
quale viene sollevata la questione non coincida con  la  proposizione
della  questione  stessa»  (Sul  punto  vedasi   F.   Dello   Sbarba,
L'inammissibile  impugnazione  della  legge  in  mancanza   di   lite
pregiudiziale, in questa Rivista 1999, 1301 e ss.; L.  Imarisio,  Lis
fictae e principio di incidentalita': la dedotta  incostituzionalita'
quale unico motivo del giudizio a quo, in Giur. it. 2001, 589;  Vezio
Crisafulli, op. cit., 248. In tal senso vedasi anche V.  Onida,  Note
su  un  dibattito  in  tema   di   rilevanza   delle   questioni   di
costituzionalita' delle leggi, in questa  Rivista  1978,  I,  1997  e
ss.). 
    Secondo L. Carlassare (in L'influenza della Corte costituzionale,
come giudice delle leggi, sull'ordinamento italiano, in  Associazione
per gli studi e le  ricerche  parlamentari  2000,  85).  «e'  qui  la
caratteristica del giudizio incidentale, la parte "mista" del  nostro
giudizio di costituzionalita', che non e' un  giudizio  completamente
astratto perche' richiede un  legame  col  caso,  costituito  appunto
dalla rilevanza, senza il quale  la  Corte  costituzionale  non  puo'
iniziare il  controllo;  ne'  un  giudizio  completamente  accentrato
perche' il primo vaglio appartiene al giudice del caso». 
    Vi e' discordanza di opinioni, invece, in ordine al fatto  se  si
tratti di una pregiudizialita' necessaria o meramente  eventuale,  e,
quindi, se tale requisito vada  valutato  dal  giudice  remittente  a
seguito di una scrupolosa indagine o dopo  una  delibazione  sommaria
(per   evitare   «strozzature»    impedienti    il    sindacato    di
costituzionalita'    F.    Modugno,    Riflessioni     interlocutorie
sull'autonomia del processo  costituzionale,  in  Rass.  dir.  pubbl.
1969, propone un'interpretazione ampia del requisito,  da  intendersi
come "mera applicabilita'" della legga per una disamina  delle  varie
posizioni, sia pure risalente  al  1972,  vedasi  F.  Pizzetti  e  G.
Zagrebelsky,  «Non  manifesta  infondatezza»  e   «rilevanza»   nella
instaurazione incidentale del  giudizio  sulle  leggi,  Milano  1972,
105-107). 
    Inoltre non e'  pacifico  se  essa  vada  considerata  come  mera
applicabilita' (della norma, della cui conformita' a Costituzione  si
dubita, nel processo  principale)  o  invece  come  influenza  (della
decisione della Corte sul giudizio  a  atto  [cfr.  in  argomento  V.
Crisafulli,  op.  cit.,  287,  sottolinea  che  «se,  parlandosi   di
influenza sul giudizio, si volesse mettere l'accento sul risultato, o
meglio  sulla  diversita'  di  risultati  che  conseguirebbero   alla
risoluzione della quaestio legittimatis... non  e'  richiesto  aversi
influenza sul giudizio principale,  l'esito  ben  potendo  essere  il
medesimo, ma in applicazione di norme diverse  da  quelle  che  erano
state   denunciate   e   che   la   Corte   avesse   poi   dichiarate
costituzionalmente illegittime»; sed contra  A.  Ruggeri-A.  Spadaro,
Lineamenti   di   giustizia   costituzionale,   Torino   1998,   257,
argomentando dal tenore letterale dell'art. 23 della legge n. 87  del
1953, sostengono che la tesi dell'influenza appare la piu'  corretta,
dovendosi intendere l'applicabilita' come un  qualcosa  di  distinto,
come «condizione necessaria, ma non sufficiente della q.l.c.). 
    Ad ogni buon conto, va ricordalo  che,  comunque  si  atteggi  il
controllo del giudice a quo, esso «non comporta alcun pregiudizio per
l'interesse delle parti». 
    Infatti,  «e'  vero  che   l'apprezzamento   negativo   impedira'
l'accesso alla Corte, ma evidentemente, se il giudice del  caso  nega
in concreto la rilevanza, cio' significa che  ritiene  di  non  dover
applicare la norma» (L. Carlassare,  I  diritti  davanti  alla  Corte
costituzionale: ricorso individuale o rilettura  dell'art.  27  legge
87/1953?, in Dir. soc. 1997, 4, 441 e ss.) 
    Se il  controllo  sulla  rilevanza  dal  parte  del  giudice  del
processo principale non desta  inquietanti  interrogativi  in  ordine
all'effettivita' di tutela dei diritti in gioco e neppure del diritto
obiettivo, dacche' anch'essa non  sembra  possa  correre  particolari
pericoli dal controllo sulla rilevanza  effettuato  dal  giudice  del
processo principale, perche' come nota V. Crisafulli, «una  questione
seria finira' sempre per trovare un giudice che ne riconosca  la  non
manifesta infondatezza... e, quanto alla rilevanza, ci sara'  sempre,
tra i moltissimi giudizi che si celebrano quotidianamente in  Italia,
quello la  cui  definizione  dipende  sotto  l'uno  o  sotto  l'altro
aspetto, dalla soluzione di una seria questione di costituzionalita'»
(conformi sia  Gustavo.  Zagrebelsky,  La  giustizia  costituzionale,
Bologna 1988, 220; sia V. Angiolini, La Corte senza il processo o  il
processo  costituzionale  senza  processualisti,  in   La   giustizia
costituzionale ad una svolta, Atti del seminario di Pisa del 5 maggio
1990, a cura di R. Romboli, Torino 1991, 29-30, il quale ricorda  che
«un sindacato pieno... della Corte era stato escluso, con  intenzioni
opposte, sia dai sostenitori del giudizio costituzionale  "obiettivo"
(nell'interesse pubblico o dell'ordinamento) e  "politico",  sia  dai
sostenitori del giudizio costituzionale "concreto" (riallacciato alla
controversia pendente presso il giudice a quo) e destinato a tutelare
situazioni subiettive: gli uni avevano  escluso  il  sindacato  della
Corte sulla rilevanza proprio  per  sottolineare  il  distacco  degli
interessi tutelati nel giudizio costituzionale da quelli del giudizio
a quo, gli altri lo avevano escluso perche'  il  giudice  remittente,
come giudice primo e finale delle situazioni subiettive delle  parti,
avrebbe dovuto conservare sulla rilevanza una signoria intangibile»),
lo stesso non puo' dirsi cosi' tranquillamente per la verifica che la
Corte  effettua  su  tale  controllo,  momento  questo  in   cui   le
distinzioni precedentemente segnalate  affiorano  in  tutta  la  loro
importanza. 
    Da piu' parti e' stata sottolineata la difficolta'  ad  ammettere
la possibilita'  per  la  Corte  di  effettuare  un  controllo  sulla
rilevanza poiche' «si verte su valutazioni gia' proprie del giudice a
quo» in quanto «attengono ad un  potere  che  appartiene  all'essenza
stessa della funzione giurisdizionale». 
    Dal canto suo, V Crisafulli, nelle sue  note  "Lezioni"  nota  al
riguardo che le obiezioni tendenti a  negare  anche  questo  tipo  di
verifica sono infondate. 
    Obiettare che il giudizio principale  sia  solo  l'occasione  del
giudizio presso la Corte, non coglie nel segno  poiche'  «il  cordone
ombelicale che lega i due processi non si rompe  mai  del  tutto,  la
decisione  che  la  Corte  emettera'  sul  merito   della   questione
rivolgendosi anche, ed anzi, in primo luogo, al processo principale». 
    D'altronde, come osserva l'autore, anche la tesi  instaurante  un
parallelismo  tra  la  "pregiudiziale  costituzionale"  e  le   altre
pregiudiziali note alla prassi e alla  legislazione  processualistica
non coglie nel segno quando sostiene che «il giudice investito  dalla
causa pregiudiziale non puo' ne' deve sindacare se  la  decisione  di
quest'ultima  sia  effettivamente  rilevante  per  la  decisione  del
processo a quo». Contro tale teoria Crisafulli  obietta  che,  mentre
nel  caso  delle  pregiudiziali  comuni  sono  certe  l'autonomia  ed
estraneita' della  questione  pregiudiziale...  rispetto  all'oggetto
originariamente proprio del giudizio principale, cio' non vale  certo
per quel che  riguarda  la  questione  costituzionale,  potendo  essa
essere considerata «piuttosto come inerente  all'oggetto  stesso  del
giudizio a quo, in quanto attiene  alle  norme  di  legge  in  questo
applicabili». 
    Pertanto, conclude l'autore,  «e'  logico...  che,  a  differenza
delle altre pregiudiziali, la Corte sia tenuta a verificare in limine
se sussistono i presupposti e le condizioni richieste affinche' possa
giudicare nel merito della questione». 
    In argomento, P. Veronesi (A proposito della rilevanza: la  Corte
come giudice del modo di esercizio del potere, 1996, 478  e  ss),  L.
Carlassare (op. ult. cit., 453) e  Valerio  Onida  (in  Relazione  di
sintesi,  in   Giudizio   a   quo   e   promovimento   del   processo
costituzionale, Atti del seminario svoltosi  a  Roma,  Palazzo  della
Consulta,  il  13-14  novembre  1989,  Milano   1990,   307),   quasi
all'unisono rilevano che nella verifica della Corte  sulla  rilevanza
«l'esigenza di fondo sia quella di trovare un giusto  equilibrio  tra
il mantenimento necessario del  nesso  di  incidentalita'  (e'  stato
ricordato infatti  come  la  rilevanza  non  sia  null'altro  che  la
traduzione esplicita del nesso di incidentalita'),  e  l'esigenza  di
lasciare al giudice a quo, per  cosi'  dire,  la  disponibilita'  del
proprio giudizio, cioe' di lasciare cosi' che sia il giudice a quo  a
decidere dell'impostazione  del  giudizio  concreto:  la  Corte  puo'
esercitare un sindacato esterno sulla rilevanza, ma non puo' definire
i termini del processo concreto». 
    Peraltro,   gia'   nel   1957,   Vezio   Crisafulli   (in   Sulla
sindacabilita' da parte della Corte costituzionale della  "rilevanza"
della questione di legittimita' costituzionale,  1957,  608  e  ss.),
osservando che il giudizio sulla fondatezza o  meno  della  questione
spetta alla Corte, mentre  il  giudizio  sulla  rilevanza  spetta  al
giudice  a  quo,  sostiene  che  la  prima   possa   sindacare   solo
l'attendibilita' dell'accertamento compiuto dal giudice remittente  e
non direttamente l'accertamento in se stesso. Secondo  l'autore,  nel
caso in cui il controllo effettuato da questo non sia attendibile, la
Corte ricorrera' alla restituzione degli atti, mentre  addiverra'  ad
una dichiarazione di irrilevanza solo nel  caso  in  cui  questa  sai
assolutamente certa, manifesta e non implicante indagini  nel  merito
della causa principale. 
    Senza dubbio consentito alla Corte e' un controllo  esterno,  che
«possiede tutti i connotati tipici di un sindacato sul modo in cui  i
remittenti hanno esercitato il potere, loro assegnato, d'identificare
le norme applicabili al caso». 
    Infatti, se la rilevanza concerne il giudizio di provenienza,  la
sua valutazione non puo' non spettare al giudice remittente. 
    In tal senso milita L. Carlassare (in L'influenza della Corte...,
cit., 85). 
    Cio' presupposto, si  domanda  l'autrice,  «a  chi  infatti  puo'
competere il giudizio sulla rilevanza se non a chi, in concreto, deve
fare applicazione della legge? La risposta sembrerebbe sicura: sta al
giudice che deve risolvere il caso decidere  quale  norma  applicare,
non si puo' immaginare che una simile scelta sia attribuita ad altri;
per Costituzione il giudice e' soggetto solo alla legge, nessuno puo'
entrare nel suo giudizio, dirgli cio' che deve  fare  o  quale  legge
applicare» (cfr., in termini, anche F. Pizzetti e G. Zagrebelsky, op.
cit., 146-147 e le numerose ordinanze d'inammissibilita' della  Corte
costituzionale, tra cui, ex plurismis, la n. 305 del 1997; nonche' le
sentenza nn. 163 del 2000, 179 e 148 del 1999, 386 del 1996,  79  del
1994, n. 286 del 1997). 
    Sul piano teorico non sembrano esserci dubbi di sorta, talche' e'
Io stesso giudice costituzionale a ripetere a piu'  riprese  che  «la
valutazione della rilevanza spetta innanzitutto  al  giudice  a  quo,
salvo il controllo esterno della Corte costituzionale», per  cui  «la
valutazione.., effettuata dal giudice remittente si puo' disattendere
solo quando risulti del tutto implausibile». 
    A partire, comunque, dalla fase dello smaltimento dell'arretrato,
la Corte, non solo  ha  ristretto  le  maglie  del  proprio  giudizio
attraverso un irrigidimento delle coordinate  logico-temporali  entro
le quali viene consentito al giudice a quo di sollevare la questione,
ma ha attuato un controllo di una scrupolosita' maniacale  in  ordine
alla  corretta  formulazione  dell'ordinanza  di   rimessione),   con
particolare riferimento all'esigenza di una motivazione esaustiva  in
ordine alla rilevanza della questione. 
    Ben  vero,  la  dottrina  ha  individuato  tre  «stagioni»  della
rilevanza, in corrispondenza della diversa intensita'  del  controllo
espletato dalla Corte su tale requisito. 
    In particolare F. Sorrentino  (in  Considerazioni  sul  tema,  in
Giudizio..., cit., 239-241),  sottolinea  l'atteggiamento  indulgente
della Corte fino alla fine degli anni '50, periodo in  cui  la  Corte
tendeva a collocarsi piu' vicino al sistema giudiziario che a  quello
di governo, stringendo un rapporto piu' stretto con i giudici comuni.
Egli nota che gia' nel corso degli anni  '60  la  Corte  comincia  ad
operare un controllo piu' incisivo  sulla  rilevanza,  controllo  che
tuttavia continua  a  mantenersi  esterno,  limitandosi  la  Corte  a
verificare  semplicemente  l'iter   logico   percorso   dal   giudice
remittente. 
    L'autore evidenzia, invece, che nella giurisprudenza piu' recente
(lo  scritto  risale  a  quando   il   problema   dello   smaltimento
dell'arretrato era quanto mai fresco) il  controllo  sulla  rilevanza
operato dalla Corte diviene «un vero  e  proprio  controllo  interno,
volto a verificare se il giudice remittente debba oppure no applicare
o comunque far uso della disposizione impugnata». 
    La  Corte  diveniva   sempre   piu'   costante   nel   dichiarare
inammissibile la questione nel caso  in  cui  la  rilevanza  non  sia
«attuale», in quanto la questione non inerisce  a  norma  applicabile
nel giudizio e nella fase in corso, non bastando che venia  su  norma
gia' applicata in una fase anteriore (questione tardiva: ad es. ordd.
nn. 59 del 1999 e 264 del 2002) o in una fase  successiva  (questione
prematura: ad es. ord. n. 237 del 1999 e sent. n. 161 del 2000). 
    Un'altra  ipotesi  confermativa  dell'indirizzo   giurisdizionale
sulle  leggi  suddetto,  concerne   la   sussistenza   di   questioni
preliminari e pregiudiziali nel giudizio principale. 
    Inizialmente la Corte ha ritenuto  di  esclusiva  competenza  del
giudice a quo la determinazione dell'ordine  logico  delle  eccezioni
preliminari e pregiudiziali,  compresa  quella  di  costituzionalita'
(vedasi ad es. sent. n. 59 del 1957). 
    In contrario, di recente, la Corte ha  ritenuto  che  il  giudice
remittente debba dar ragione nell'ordinanza di  rimessione  (ai  fini
della  rilevanza)  delle  eccezioni   preliminari   e   pregiudiziali
sollevate o rilevabili con evidenza,  occorrendo  la  giustificazione
della  precedenza  accordata  alla  questione  di   costituzionalita'
rispetto  alle  altre  questioni  nell'ordine  logico  preordinate  o
pariordinate (cfr. ex multis le ordinanze nn. 103 del 1995 e  15  del
1998). 
    Tale   fenomeno   e'   di   tutta   evidenza    in    riferimento
all'inammissibilita' costantemente pronunciata dalla Corte di  fronte
a questioni contraddittorie (ad es. ordd. nn. 56 del 1991 e  164  del
1994), ambigue (ad es. sent. n. 344 del 1994 e ord. n. 449 del  1994)
e alternative, ancipiti, ipotetiche o eventuali (ad es. ordd. nn. 414
del 1997, 94 del 1998 e 366 del 2002): epifenomeno dell'irrigidimento
di cui  si  e'  detto  sono  le  decisioni  di  inammissibilita'  per
motivazione apodittica sulla rilevanza (ad es. ordd. nn.  219  e  279
del 2000). 
    Tal orientamento potrebbe considerarsi ammissibile sono nel  caso
in cui non emerga in alcun modo  il  riscontro  della  rilevanza  dal
contesto dell'ordinanza o dagli atti di causa. 
    A tal proposito L. Carlassare (in «La tecnica e il rito»:  ovvero
il formalismo nel  controllo  sulla  rilevanza,  1979,  757  e  ss.),
sottolinea le conseguenze derivanti dall'intendere il controllo sulla
rilevanza alla stregua di «un'esigenza  meramente  formalistica»,  il
che comporta il «rischio del summum ius, summa iniuria». 
    L'atteggiamento assunto dalla Corte e'  dei  piu'  intransigenti,
basti  pensare  che  il   giudice   costituzionale   esige   a   pena
d'inammissibilita'  non  solo  una  dettagliata   descrizione   della
fattispecie  all'esame  del  remittente,  ma  anche  una  motivazione
autosufficiente che non sia in  alcun  modo  ricavata  per  relatione
(cfr. le pronunce nn. 470 del 1998 e 251 del 1999 e le ordinanze  nn.
139 del 2000 e 492 del 2002). 
    L.  Carlassare  (in  Le  questioni  inammissibili   e   la   loro
riproposizione,  in  questa  Rivista  1985,  751),   sottolinea   che
l'esigenza della «chiara e generale conoscenza» con la quale la Corte
giustifica   l'inammissibilita'   delle   questioni   motivate    per
relationem, non e' sostenibile nei confronti della rilevanza, che  si
configura come un «requisito..., strettamente inerente giudizio a quo
le cui vicende  ben  difficilmente  possono  interessare  generalita'
degli operatori giuridici». 
    F.   Cerrone   (in   Obiettivizzazione   della    questione    di
costituzionalita', rilevanza  puntuale  e  rilevanza  diffusa  in  un
recente orientamento della  giurisprudenza  costituzionale,  In  Giur
cost. 1983, 2419 e ss.) invece avvalla tale  orientamento  in  virtu'
della «funzione di  pubblicita',  posta  a  tutela  di  un  interesse
generale ad una chiara conoscenza  delle  questioni  di  legittimita'
costituzionale,  che  non  puo'  ritenersi  soddisfatto  da  un  mero
riferimento estraneo all'ordinanza medesima». 
    Tuttavia quest'ultima osservazione, ad avviso del giudicante, non
coglie nel segno, giacche' come nota la stessa L. Carlassare  (in  Le
decisioni di inammissibilita' e di manifesta infondatezza della Corte
costituzionale, in Foro it.,  302),  bisogna  fare  una  distinzione,
perche' se le ordinanze motivate per  relationem  «rinviano  ad  atti
interni, non conoscibili dai terzi interessati lettori della Gazzetta
Ufficiale, il fatto che la Corte le  respinga,  invocando  l'esigenza
della generale conoscenza collegata alla pubblicita'  prescritta,  si
puo'  comprendere»,  pero',  costatando  le  pagine  intere  di  G.U.
occupate  da  istanze  identiche,  «quando  il  rinvio  e'  ad  altre
ordinanze di altri giudici o dello stesso giudice remittente  su  cui
quest'ultimo modella la propria, si tratta di puro formalismo». 
    Contro l'orientamento della Corte si schiera anche G. Zagrebelsky
(in, La giustizia costituzionale, cit., 216,  il  quale  osserva  che
dietro l'inammissibilita' pronunciata per l'esigenza  di  pubblicita'
suddetta  si  cela  in  realta'  un  equivoco  di  fondo,   creandosi
«confusione   fra   la    cosa    (la    rilevanza)    e    la    sua
motivazione-esposizione»  e  dimenticando  invece   che   la   stessa
giurisprudenza costituzionale «afferma con rigore  la  necessita'  di
una motivazione propria, di ciascun giudice sui  caratteri  specifici
che la rilevanza assume nel loro giudizio, senza rinvio a valutazioni
altrui, nate in diversi contesti processuali». 
    E' pur vero che da tale orientamento giurisprudenziale  non  puo'
dedursi di per se' un'ingerenza della Corte nell'ambito riservato  al
giudice, ciononostante il rischio che il controllo della Corte non si
mantenga piu' su un piano esterno, ma debordi in un sindacato interno
e' tutt'altro che un'astratta possibilita', infatti, per dirla con le
parole di Zagrebelsky, se «secondo la giurisprudenza della  Corte  la
motivazione  -  perche'  possa  dirsi   esistente   -   deve   essere
sufficiente,  non  contraddittoria,  non  incongrua   rispetto   alla
fattispecie oggetto del giudizio e (se) su tali aspetti la  Corte  si
riserva il sindacato... e' chiaro che a questo punto puo' aprirsi  la
via per un  controllo  sostanziale  delle  valutazioni  compiute  dal
giudice a quo». 
    Occorre, dunque, indagare se una tale sovrapposizione di ruoli si
sia effettivamente verificata,  non  fermandosi  a  quanto  affermato
dalla Corte nella motivazione delle  proprie  sentenze,  o  a  quanto
risulta dalle  conferenze  annuali  del  Presidente  della  Consulta,
perche', per le ragioni addotte, «contrariamente  alle  intenzioni  o
alle proclamazioni, l'eventualita' di una sovrapposizione della Corte
al giudice, in ordine alla rilevanza, e' all'ordine del giorno». 
    Se e' possibile parlare di  un  controllo  esterno  nel  caso  di
«errore  evidente,  che  appare  prima  facie  incontrovertibilmente»
(sostenendo che essa sussiste nei casi di irrilevanza talmente palese
da apparire ictu oculi, quando essa «risulta da  dati  obiettivi  che
non implicano una scelta di valore»), come nel caso in cui il giudice
remittente abbia  gia'  fatto  applicazione  della  norma  censurata,
altrettanto non puo' dirsi, come correttamente rilevato dal Veronesi,
nel caso in cui la Corte ridefinisca i profili di fatto e il  diritto
su cui viene imperniata la causa nel  giudizio  principale,  i  quali
invece dovrebbero giungere al suo controllo come dato immodificabile. 
    Epifenomeni  di  una  tale  ingerenza  della  Corte  nei  compiti
riservati ai giudici a quibus, dove si riscontra in modo evidente  lo
straripamento dagli argini  che  delimitano  la  sua  funzione,  sono
riscontrabili all'interno del  fenomeno  comunemente  chiamato  della
aberratio ictus, nel recente orientamento della Corte riguardante  la
sindacabilita' di norma abrogata e dello jus superveniens, per finire
con la variante apportata  in  tema  di  controllo  sulla  rilevanza,
risalente al 1990, e cioe' la c.d. irrilevanza sopravvenuta. 
    Trattasi, com'e' evidente, della cosiddetta "aberratio ictus". 
    Tale  espressione,  usata  per  indicare  l'impugnazione  di  una
disposizione diversa da quella, applicabile nel processo  principale,
a cui la censura proposta risulta  effettivamente  riferibile,  viene
utilizzata per  la  prima  volta  dalla  Corte  costituzionale  nelle
sentenze nn. 39 e 304 del 1986, ma ricorreva gia' da qualche tempo in
dottrina. 
    In particolare  tale  espressione  era  stata  utilizzata  di  C.
Mezzanotte (in Inammissibilita' e infondatezza per  ragioni  formali,
in  Giur  cost.  1977),  il  quale  ha  distinto  la  diversa  ottica
retrostante  al  differente  atteggiamento  della   Corte,   talvolta
pronunciante l'infondatezza  altre  volte  l'inammissibilita'  (negli
ultimi anni sempre quest'ultima), di fronte ad ipotesi  di  aberratio
ictus, esprimente nel primo caso la configurazione di un giudizio  di
costituzionalita' come radicalmente  autonomo  rispetto  al  giudizio
principale mentre nel secondo la  configurazione  opposta,  ossia  il
giudizio di costituzionalita' come «incidente» del giudizio a quo; la
recente dottrina ritiene superata tale  contrapposizione,  rinvenendo
nell'ipotesi in parola  un  vizio  dell'oggetto  della  questione  di
costituzionalita'. 
    La prima ipotesi, della c.d. aberratio ictus, si ha nel  caso  in
cui la censura del giudice a quo avrebbe dovuto  riguardare  un'altra
norma, ma la Corte  «invece  di  limitarsi  a  rilevare  un  generico
difetto di rilevanza, per non essere quella sollevata dal giudice  la
norma applicabile al caso, ... indica al giudice anche l'altra  norma
che, a suo avviso, si sarebbe dovuta censurare». 
    Se osserviamo i casi di aberratio, spesso  la  Corte  non  rileva
affatto un errore materiale del giudice remittente,  ma  «compie  una
vera  e  propria  operazione   interpretativa»   ),   che,   partendo
dall'ordinanza di  rimessione  (e  dal  contesto  in  cui  questa  si
inserisce),  individua  la  norma  da  applicare  alla   fattispecie,
«completamente estranea al ragionamento del giudice» remittente. 
    Con questo comportamento la Corte riconfigura la stessa questione
che  le  viene   proposta   dal   giudice   remittente,   ridefinendo
autonomamente l'oggetto stesso del suo sindacato. 
    L. Cassetti  (in  L'aberratio  ictus  del  giudice  a  quo  nella
giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur cost a 1990, 1387,
osserva che il tipo di  errore  in  cui  puo'  incappare  il  giudice
remittente puo' essere «materiale» o «interpretativo» e asserisce che
«fra le righe dell'aberratio e' infatti consentito  leggere  qualcosa
di piu' della rilevazione del mero errore  materiale  e  qualcosa  di
diverso dalla censura dell'errore interpretativo: il quid  pluris  e'
rappresentato... dalla indicazione della disposizione o  del  sistema
normativo  cui  il  giudice  a  quo  deve  riferirsi  ai  fini  della
definizione del giudizio pendente». 
    Questo  orientamento,  come  notano  Marilisa  D'amico  e   Paolo
Veronesi, e' un chiaro indice di come il controllo  esercitato  dalla
Corte non possa dirsi esterno rispetto a quello operato del giudice a
quo, venendosi a configurare non come un controllo  sull'iter  logico
percorso dal remittente, poiche' «la Corte costruisce i parametri per
un proprio, autonomo, giudizio  sulla  rilevanza,  che  non  coincide
affatto  con  un  riesame  dell'attivita'  delibativa  compiuta   dal
giudice». 
    Tali osservazioni non vanno limitate all'ipotesi di aberratio. 
    Esse valgono anche in ipotesi d'abrogazione delle  norme  oggetto
di censura e di valutazione diretta dello jus superveniens. 
    Leopoldo Elia (in Giur cost, 1999, 687) evidenzia il  cambiamento
al riguardo incorso nella giurisprudenza piu' recente. 
    L'illustra autore osserva che, mentre in un primo  momento  anche
su tale profilo la Corte si limitava  (come  su  ogni  altro  aspetto
legato alla  rilevanza)  ad  esigere  una  congrua  motivazione,  non
contraddittoria sul  punto  (n.  117  del  1964),  oggi  la  Consulta
pretende che le venga fornita una puntigliosa  motivazione  da  parte
del giudice remittente  in  riferimento  alla  fattispecie  concreta.
Sebbene questa «per il principio della successione  delle  leggi  nel
tempo, e' disciplinata dalla norma impugnata vigente all'epoca in cui
si e' realizzato il fatto» (vedasi la nota redaz. alla  sentenza.  n.
81 del 1998, a cura di A. Celotto) cio' non viene  considerato  dalla
Corte sufficiente ai fini della motivazione sulla rilevanza. 
    In proposito, e'  necessario  che  la  perdurante  applicabilita'
della normativa alla fattispecie concreta venga sostenuta «oltre  che
da un accurato esame di tutti gli elementi della fatti specie atti  a
collocarli  temporalmente  nella  sua  sfera  di  vigenza,   da   una
descrizione dell'iter logico argomentativo in base al quale  egli  ha
ritenuto  di  individuare  in  quei  determinati   confini   l'ambito
temporale di efficacia della norma impugnata» (cfr. le ordinanze  nn.
419, 468 del 1997; 79, 343 del 1998). 
    Non  e'  da  escludere  che  la  Corte  esiga  un   tal   corredo
argomentativo per poter essere lei stessa messa in grado di  valutare
direttamente se la nuova normativa incida temporalmente sul  caso  in
esame, confermando la tendenza  osservata  ad  esercitare  sul  piano
concreto il proprio controllo sulla rilevanza non  dall'esterno,  ma,
per dirla con le parole di Elia, «in forme  piu'  penetranti,  spesso
vicine ad un vero  e  proprio  controllo  interno  in  cui  Corte  si
sostituisce al giudice  a  quo  affermando  o  negando  la  rilevanza
prescindere da vizi della motivazione». 
    In  ogni  evenienza,  il  rischio  di  una  sovrapposizione   del
controllo della Corte a quello del giudice a quo, e' stato  rinvenuto
oltre che nell'orientamento della Corte particolarmente  rigoroso  ed
esigente nel pretendere una dettagliata dimostrazione della rilevanza
nel caso in cui le norme oggetto di censura siano abrogate o comunque
modificate, anche nell'ipotesi in cui, in caso d'jus superveniens, la
Corte, invece di provvedere,  come  solita  fare,  alla  restituzione
degli atti al giudice  a  quo,  affinche'  fornisca  una  motivazione
adeguata in relazione alla modificazione sopraggiunta (essendo suo il
compito di valuta la persistente rilevanza della questione),  giudica
direttamente sulla rilevanza della questione. 
    Un'altra ipotesi da cui traspare in modo nitido  l'evoluzione  in
tema di controllo sulla rilevanza di cui si e'  detto,  consiste  nel
fenomeno, che e' stato denominato dell'"irrilevanza sopravvenuta". 
    Tale figura si riscontra nel caso in cui  «la  rilevanza  di  una
determinata questione di costituzionalita', che sussiste  al  momento
dell'emanazione   della   ordinanza    di    rinvio,    venga    meno
successivamente, a seguito del verificarsi di  fatti  nuovi  (ad  es.
morte dell'imputato, transazione della causa, ecc.)». 
    In questo contesto, va rilevato che, di recente, la Corte  sembra
essere ritornata sui suoi passi quando afferma che «l'estinzione  del
giudizio a qua  non  e'  di  per  se  sufficiente  a  determinare  la
sopravvenuta  inammissibilita'   della   prospettata   questione   di
costituzionalita' poiche', secondo  l'orientamento  giurisprudenziale
di questa Corte, in armonia con l'art. 22 delle  "Norme  integrative"
del 16 marzo 1956, il requisito  della  rilevanza  riguarda  solo  il
momento  genetico  in  cui  il  dubbio  di  costituzionalita'   viene
sollevato, e non anche il periodo successivo  alla  rimessione  della
questione alla Corte costituzionale» di tal che non si  puo'  fare  a
meno di constatare come le decisioni richiamate, in  tale  ordinanza,
per suffragare quello che e' a detta della stessa  Corte  il  proprio
costante  orientamento,  non  tengano  conto   della   giurisprudenza
costituzionale degli anni '90. 
    Va detto, inoltre, che  sovente  non  si  procede  all'esame  del
merito   della   questione,   ma    si    dichiara    la    manifesta
l'inammissibilita' della questione dovuta al fatto che l'ordinanza di
rimessione presenta  delle  carenze  in  ordine  ai  passaggi  logici
«necessari per ritenere la pregiudizialita' della questione». 
    Come si vede l'apertura della Corte e' piu' apparente che  reale,
dal momento che, sebbene inammissibilita' sia pronunciata  di  fronte
ad un vizio dell'ordinanza di rimessione da parte del giudice a  quo,
e a dire la verita' superabile dalla stessa Corte con un po' di buona
volonta', la questione non potra' piu' essere sollevata dallo  stesso
giudice nello stesso grado di giudizio, dal momento che per l'appunto
vi e' stata l'estinzione del giudizio a quo. 
    Da tale orientamento, che fino ad oggi e' ancora (fortunatamente)
sporadico, sembra dedursi una riformulazione da parte della Corte del
concetto stesso di rilevanza, da intendersi come «concreta  incidenza
della  pronuncia  costituzionale   sulla   soluzione   del   giudizio
principale». 
    E' curioso notare che le dispute dottrinali, di cui si e'  detto,
sul significato  di  rilevanza  come  «mera  applicabilita'»  o  come
«influenza decisiva» sull'esito del  giudizio,  fossero  riferite  al
controllo del giudice a quo e non a quello della Corte! 
    Secondo alcuni, fra i quali Roberto Romboli,  in  una  situazione
del  genere  ci  si  trova  di  fronte  ad  «processo  costituzionale
rigidamente dipendente dal giudizio  principale,  in  quanto  teso  a
tutelare gli stessi interessi presenti in quest'ultimo,  visti  nella
loro specificita'. 
    Un  processo  costituzionale  quindi  massimamente  concreto   ed
attento agli interessi del giudizio a quo». 
    Siffatto orientamento della Corte costituzionale (in  particolare
le decisioni di inammissibilita'  per  irrilevanza  sopravvenuta)  e'
stato da piu' parti criticato,  dato  che  una  configurazione  tanto
concreta del giudizio costituzionale rischia di precludere la  tutela
dell'«integrita' costituzionale dell'ordinamento» oggettivo. 
    Tuttavia, un cosi' penetrante controllo della Corte in ordine  ai
presupposti del caso concreto, determina dei seri rischi anche per la
tutela delle posizioni soggettive implicate nel giudizio  principale,
in quanto comporta la trasformazione del giudice costituzionale in un
vero e proprio giudice di secondo grado che  opera  un  sindacato  di
carattere  interno  sulla  rilevanza,  a  tal  punto  che  «si   puo'
riscontrare come il profilo della rilevanza possa ... confondersi con
il merito stesso della questione». 
    Il pericolo dietro l'angolo e'  che  il  thema  decidendum  venga
delineato attraverso un dialogo che non vede piu' come  interlocutori
le parti e il giudice, ma quest'ultimo  e  la  Corte  costituzionale,
dialogo  che  spesso  si  arresta  di  fronte  alle   decisioni   di'
inammissibilita'  pronunciate  da  quest'ultima.  Come  nota  Lorenza
Carlassare, «non spetta al giudice costituzionale entrare nel  merito
del  processo  sospeso  indicando  quali  norme  deve,  o  non   deve
applicare» proprio perche' «altrimenti  il  pregiudizio  delle  parti
puo' essere definitivo... se il giudice remittente, di fronte ad  una
decisione di inammissibilita', non ripropone  la  questione  in  modo
corretto». 
    Un sindacato della Corte cosi' penetrante  da  sfociare  il  piu'
delle volte in decisioni di inammissibilita' in realta'  implica  una
minor tutela dell'integrita' dell'ordinamento e rischia  di  arrecare
pregiudizi definitivi alle parti in  quanto  contraddice  alla  ratio
della l. cost. n. 1 del 1948 e quindi alla logica stessa del giudizio
incidentale. 
    A   tal    proposito    la    dottrina    e'    tuttora    divisa
sull'interpretazione dell'ordinanza n. 109 del 2001, in cui la  Corte
premettendo  che,  come  risulta  dall'ordinanza  di  rimessione,  «i
giudici  ricusati  hanno  presentato  dichiarazione  di   astensione,
accolta dal Presidente del Tribunale; che a norma dell'art. 39 c.p.p.
la dichiarazione di ricusazione, che ha  dato  luogo  alla  procedura
nell'ambito  della  quale  e'  stata  sollevata   la   questione   di
legittimita' costituzionale, si considera come non proposta quando il
giudice, anche successivamente  ad  essa,  dichiara  di  astenersi  e
l'astensione e'  accolta;  che  l'astensione  dei  giudici  ricusati,
intervenuta successivamente  alla  ordinanza  di  rimessione,  appare
quindi suscettibile di incidere sul rapporto processuale instauratosi
innanzi al giudice della ricusazione  e  sulla  perdurante  rilevanza
della presente questione di legittimita' costituzionale (v. ordd. nn.
448 del 1994, 65 del 1991, 250 del 1990)», ha concluso «che non e' di
ostacolo a questa conclusione  la  disciplina  dettata  dall'art.  22
delle  norme  integrative  per   i   giudizi   davanti   alla   Corte
costituzionale, che si riferisce ai diversi casi  della  sospensione,
interruzione ed estinzione del giudizio a quo». 
    Secondo  R.  Romboli  (in  Aggiornamenti  in  tema  di   processo
costituzionale, Torino 2002, 63), «pare  proprio  che  la  Corte  sia
incorsa in una sorta di infortunio, dal momento che  l'art.  22  N.I.
stabilisce l'irrilevanza per il processo costituzionale di "qualsiasi
causa" incidente sulla vita del giudizio a quo  e  non,  come  sembra
ritenere la Corte, dei soli  casi  che  conducono  alla  sospensione,
interruzione ed estinzione  del  giudizio  a  quo,  il  quale  ultimo
riferimento   infatti   e'   chiaramente   riferito    al    processo
costituzionale e non a  quello  che  si  svolge  davanti  al  giudice
comune». 
    In senso analogo si e' espresso M. Dal Canto (in La  rilevanza  e
il valore del fatto nel giudizio di costituzionalita' delle leggi  in
via incidentale, in E. Malfatti-R. Romboli-E. Rossi [a cura  di],  Il
giudizio sulle leggi e la  sua  diffusione.  Verso  un  controllo  di
costituzionalita' di tipo diffuso, Torino 2002, 147 e ss.; sul  punto
vedasi  anche  S.  Pajno,  La  Corte  torna   nuovamente   sul   tema
dell'irrilevanza sopravvenuta, in Giur. it. 2001, 6 e ss.). 
    Infatti, se, come ha osservato Vezio Crisafulli, «l'autonomia del
processo costituzionale... deve comunque essere riferita al  processo
costituzionale dopo che sia stato validamente instaurato,  mentre  la
rilevanza   attiene   al   momento   di   instaurazione   di    esso,
condizionandone il valido proseguimento», il cordone  ombelicale  che
lega i due giudizi sara' reciso, nel  momento  in  cui  la  questione
supera positivamente  il  vaglio  di  ammissibilita'  compiuto  dalla
Corte,  che  in  sostanza   deve   controllare   se   la   questione,
oggettivamente  configurata  nell'ordinanza  di   remissione,   possa
condurre una vita autonoma. 
    P.  Veronesi  (op.  ult.  cit.,  499),  parla  efficacemente   di
«giudizio di appello anticipato». 
    M. D'Amico (op. cit.,  2154),  osserva,  altresi',  che  nel  suo
controllo la Corte «parte innanzitutto, da un esame dell'ordinanza di
rimessione, intesa quasi come domanda del  giudizio  costituzionale»,
cosicche' «il problema centrale non sta piu' dalla parte dei giudici,
ma del modo in cui la Corte intende risolvere il caso oggetto del suo
giudizio», per cui «se  il  caso  entra  a  far  parte  del  giudizio
costituzionale,  quest'ultimo  deve   necessariamente   trasformarsi,
avvicinandosi sempre piu' ad un vero giudizio». 
    Sul fatto che «la rilevanza entra a  formare  il  c.d.  petitum»,
ossia cio' che e' chiesto alla Corte e sul quale essa  deve  svolgere
il proprio, autonomo, sindacato, concordano O. Berti,  Considerazioni
sul tema, in Giudizio a  quo...,  cit.,  100,  che  rileva  come  «la
rilevanza medesima finisce con il corrispondere, sia pure in  termini
obiettivi, alla formazione del contenuto della domanda da  sottoporre
al giudice costituzionale»; nonche' L. Pesole,  Sull'inammissibilita'
delle questioni  di  legittimita'  costituzionale  sollevate  in  via
incidentale, in Giur. cost. 1992, 1592, che  deduce  come  «qualsiasi
vizio relativo alla formazione del  contenuto  di  tale  domanda  sia
logicamente riconducibile ad un problema  di  rilevanza».  La  Corte,
compie la sua verifica sulla presenza  della  rilevanza  non  in  via
«successiva al concreto esercizio del potere attribuito ai giudici...
(ma in via) preventiva sugli effetti che una sua eventuale  pronuncia
potra' generare». 
    La Corte, cioe', ipotizza il passaggio della questione al  vaglio
di  ammissibilita'   e   la   sua   eventuale   soluzione   in   sede
costituzionale, per poi, dopo  avere  valutato  i  possibili  effetti
della   sua   eventuale    pronuncia    nel    merito,    dichiararne
l'inammissibilita', cosicche' la questione ha assunto  vita  autonoma
solo nel pensiero della Corte:  ma  cosi'  la  decisione  processuale
rischia di tramutarsi in un vero e proprio «aborto costituzionale». 
    Infatti, in tali ipotesi, non e' il giudizio di costituzionalita'
a propendere verso un sempre maggiore tasso di concretezza, ma e'  il
controllo della Corte a rivelarsi proteso in tal senso. 
    Un  controllo  del  genere,  infatti,  «proprio  in  nome   della
concretezza del giudizio costituzionale, della sua aderenza al  caso,
e quindi di un piu' stretto legame col giudizio a quo, in  definitiva
finisce  per  recidere  ogni  legame  con  quest'ultimo  creando  una
barriera fra i due giudizi». 
    A questo punto si pongono tre problemi, in ordine: 
        a) alla possibilita' di  risollevare  la  medesima  questione
nello stesso giudizio da parte dello stesso giudice; 
        b) alla perduranza della  rilevanza  in  caso  di  cessazione
della materia del contendere ai fini della soccombenza virtuale; 
        c) alla necessita' per il giudice di decidere con sentenza la
domanda  dell'opponente  per  rendere  attuale  la  rilevanza   della
questione. 
    Va subito messo in evidenza che le prime due questioni non  fanno
sorgere particolari dubbi. 
    Infatti, quanto alla riproposizione della questione a seguito  di
una pronuncia di inammissibilita' da parte del medesimo  giudice  nel
corso dello stesso giudizio, la Corte dalla meta' degli anni '80,  e'
costante nel ritenere che «con riguardo, poi, ai giudizi  nell'ambito
dei  quali  la  questione  era  gia'  stata  sollevata,  e'  solo  da
aggiungere che l'art. 24, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n.  87,
preclude allo stesso giudice di adire nuovamente  la  Corte  soltanto
nel caso di una pronunzia di "natura decisoria" (sentt. nn.  433  del
1995 e 451 del 1989) e non quando sia stata emessa una pronunzia  che
dichiara  manifestamente  inammissibile  la  questione,  per  ragioni
puramente processuali» (sentt. n. 189 del 2001). 
    Del  parii  nel  caso  di  vizi  emendabili   dell'ordinanza   di
rimessione, la Corte ha mostrato, adeguandosi a  quanto  avanzato  in
dottrina da Lorenza Carlassare, di non attribuire «alcun rilievo alla
circostanza» che si tratti di questione gia' sollevata  nel  medesimo
giudizio e dichiarata in precedenza inammissibile. 
    Per  quanto  riguarda  la  perduranza   della   rilevanza   della
questione, in caso di cessazione della materia del  contendere,  essa
si  ricava  dalla  univoca  giurisprudenza  della  Suprema  Corte  di
Cassazione per  cui  «venuta  meno  la  materia  del  contendere,  ma
persistendo tra le parti contrasto in ordine  all'onere  delle  spese
processuali, il giudice del merito deve decidere secondo il principio
della  soccombenza  virtuale,  previi  gli  accertamenti   necessari»
(Cass., 11 gennaio 1990, n. 46, in Giust. civ. 1990, I, 947; conf. ex
multis Cass., 28 marzo 2001, n. 4442). 
    Il vero nodo da sciogliere riguarda la terza questione. 
    Puo' la Corte imporre al  giudice  di  pronunciare  una  sentenza
parziale, rompendo il principio dell'unita'  del  giudicato,  sancito
dall'art. 277 c.p.c., per cui il giudice «nel deliberare  sul  merito
deve decidere tutte le domande  proposte  e  le  relative  eccezioni,
definendo il giudizio»? 
    In ordine a tale problematica va innanzitutto  ricordato  che  il
codice  ha  esplicitamente  previsto  delle  eccezioni  al   suddetto
principio, nel comma 2 dell'art. 277 c.p.c., nell'art. 278  c.p.c.  e
nell'art. 279 c.p.c. 
    Va  subito  sottolineato  che  nella  fattispecie  non  ricorrono
sicuramente i presupposti dell'art. 277, comma  2,  c.p.c.  idonei  a
giustificare un frazionamento della decisione. 
    Infatti, e' pacifico che non occorresse nel caso di specie alcuna
ulteriore istruzione in  ordine  alla  domanda  riconvenzionale,  dal
momento che il giudice ha sollevato  la  questione  quando  le  parti
avevano gia' precisato le conclusioni. 
    Neppure   puo'   ritenersi    che    la    sollecita    decisione
dell'opposizione fosse di interesse apprezzabile per una delle parti. 
    Quali  conseguenze  puo'  determinare  allora  la   rottura   del
principio dell'unita' del giudicato,  in  ipotesi  non  previste  dal
codice? 
    Prima di rispondere e' opportuno segnalare che, a  seguito  della
riforma del 1950, la possibilita' di decidere  singole  questioni  e'
stata  mantenuta,  ma  e'  scomparsa  la  categoria  delle   sentenze
parziali, la quale ha ceduto il passo alla distinzione  fra  sentenze
definitive e non definitive, distinzione di  difficile  coordinamento
con il principio di cui all'art. 277 c.p.c.. 
    Senza entrare nei tortuosi meandri dell'art. 279 c.p.c.,  che  ha
visto divisa la stessa Corte di Cassazione nell'individuare i criteri
di distinzione fra sentenze definitive e non  definitive,  in  questa
sede va rilevato che seguendo l'indirizzo c.d.  «sostanzialistico»  -
in considerazione del fatto che la sentenza sull'opposizione di terzo
emessa  dal  Tribunale  di  Venezia  ha  esaurito  l'intero  rapporto
processuale relativamente alla domanda stessa - la  stessa  decisione
del Tribunale di Venezia (a dispetto del nomen juris  adottato  dallo
stesso  giudice)  apparterrebbe  alla   categorici   delle   sentenze
definitive. 
    Che la rottura del principio dell'unita' del giudicato possa  far
ritenere la sentenza definitiva emessa sull'opposizione di terzo  una
sentenza definitiva dell'intero giudizio per mancanza dei presupposti
che  (ai  sensi  dell'art.  277,  comma  2,  c.p.c.)  permettono   il
frazionamento del giudicato? 
    In questo  caso  la  Corte,  pretendendo  una  motivazione  sulla
rilevanza tale da dimostrare la possibile  concreta  incidenza  della
questione sul  giudizio  principale,  avrebbe  spinto  il  giudice  a
decidere in via definitiva  l'intero  giudizio  con  la  conseguenza,
paradossale, che la questione risollevata dallo stesso  con  ord.  12
settembre 2002, sarebbe questa volta sicuramente davvero  irrilevante
(essendo il giudizio definito). 
    Va immediatamente sottolineato, pero', che una tale soluzione  si
rivela  una  forzatura  di  un  principio,  quello  dell'unita'   del
giudicato, la cui  stessa  permanenza  nel  codice  a  seguito  della
novella del 1950 e' stata da piu' parti messa in dubbio. 
    In ogni caso,  quand'anche  si  ritenesse  tuttora  vigente  tale
principio,  esso  assumerebbe  una  natura  meramente  programmatica,
insuscettibile di determinare le conseguenze drastiche di cui  si  e'
detto, come testimonia  anche  la  giurisprudenza  citata  in  ordine
all'insindacabilita' in Cassazione dell'uso legittimo del giudice  di
frazionare  la  sua  decisione:  il  nesso  di  incidentalita'   puo'
ritenersi salvo. 
    L'analisi  di  un  caso  di  specie,  tuttavia,  non  puo'  dirsi
meramente  oziosa,  perche',  come  mettero'  in  luce  nel  prossimo
paragrafo, e' idonea ad evidenziare il paradosso che una  nozione  di
rilevanza come «influenza» (sul giudizio principale) puo' comportare. 
    Le fattispecie analizzate mettono,  pero',  in  luce  un  aspetto
nascosto,  ma  consustanziale  ad  un  controllo  della  Corte  sulla
rilevanza come «influenza». 
    Portando  alle  estreme  conseguenze  tale   impostazione,   ogni
questione sollevata dal remittente difetterebbe sempre del  requisito
della rilevanza. 
    Se la Corte,  infatti,  pretendesse  che  la  questione  non  sia
prematura, ma «attuale», e non sia  sollevata  in  via  ipotetica  ed
eventuale, a tal punto da  dichiarare  l'inammissibilita'  di  quelle
«ordinanze  di  rimessione  (che)  non  esplicitano,  invero,   alcun
elemento di valutazione circa l'incidenza in  concreto  delle  stesse
(disposizioni impugnate) sulla decisione che  il  giudice  a  quo  e'
tenuto ad assumere nei procedimenti innanzi a se' pendenti», il nesso
di incidentalita' rischia di venir meno. 
    In altre parole, se la Corte imporrebbe che il giudice remittente
avesse risolto ogni  altra  questione  pregiudiziale  e  preliminare,
imponendogli nella sostanza di sollevare la questione al termine  del
processo in modo da permettere al giudice  costituzionale  stesso  di
verificare il differente esito  del  giudizio  principale  a  seconda
dell'accoglimento o meno della questione  sollevata,  allora  sorgono
seri dubbi  sul  fatto  che  la  disposizione  impugnata  sia  ancora
applicabile nel giudizio a quo. 
    Il giudice remittente, infatti, sarebbe chiamato ad emettere, sia
pure nella forma di ordinanza (di rimessione), un provvedimento nella
sostanza di carattere decisorio. 
    A tal proposito va ricordato che, quanto meno in  ambito  civile,
la giurisprudenza e gran parte  della  dottrina,  sono  concordi  nel
ritenere che «la natura di un provvedimento giurisdizionale, anche ai
fini dell'impugnabilita', deve essere desunta  non  dalla  forma  ne'
dalla qualificazione attribuita dal giudice che lo ha emesso,  bensi'
dal  suo  intrinseco  contenuto   in   relazione   alle   particolari
disposizioni che regolano la materia». 
    Come evidenziato dalla Cassazione con la sent. 30 dicembre  1994,
n. 11358, «la natura  di  un  provvedimento  giudiziale  deve  essere
desunta non dalla forma in cui il provvedimento e'  stato  emanato  o
dalla qualificazione che gli e' stata attribuita dal giudice  che  lo
ha  emesso,  ma  dal  suo  effettivo  contenuto  in  relazione   alle
particolari  disposizioni  che  regolano  la  materia  che  ne  forma
oggetto, per cui anche una ordinanza (del giudice  dotato  di  poteri
decisori) puo' assumere la natura di sentenza impugnabile se risolve,
con efficacia di giudicato, questioni attinenti ai presupposti,  alle
condizioni o al merito della controversia». 
    Pertanto, se la Corte volendo sindacare il controllo sulla  reale
incidenza  della  disposizione  impugnata  sul  giudizio   principale
pretenda che il giudice remittente esprima il  proprio  convincimento
per il caso in cui la questione non venisse accolta, ecco che  allora
anche la rilevanza verrebbe  irrimediabilmente  meno,  in  quanto  la
stessa disposizione impugnata non  sarebbe  piu'  applicabile  in  un
giudizio gia' concluso. 
    Da  quanto  suesposto  si  evince,  dunque,   che   gli   effetti
paradossali  di  denegata  tutela  del  diritto  obiettivo  e   delle
posizioni soggettive implicate nel giudizio principale sono frutto di
un concetto di rilevanza inteso come influenza della decisione  della
Corte  sulle  sorti  del  giudizio  principale;  viceversa,   qualora
s'intenda la rilevanza come mera applicabilita' della legge impugnata
nel giudizio a quo, le conseguenze predette vengono scongiurate. 
    Inoltre, inteso in tal modo il requisito della  rilevanza,  viene
salvaguardato anche il delicato equilibrio fra i giudici remittenti e
la Corte, senza che la stessa si arroghi compiti riservati ai  primi,
ai quali soltanto spetta valutare l'applicabilita' di una determinata
norma nel  giudizio  principale.  Sul  punto,  si  riscontrano  varie
decisioni nelle quali l'esame di merito e' stato precluso dal difetto
di rilevanza, ora derivante dalla «estraneita' delle norme denunciate
all'area decisionale del giudice rimettente»  (cosi',  espressamente,
l'ordinanza n. 447), ora dal momento nel quale la questione era stata
concretamente sollevata. 
    Nel primo senso, possono menzionarsi le fattispecie  nelle  quali
la Corte ha constatato che il giudice a quo non avrebbe in alcun caso
avuto modo di applicare la disposizione denunciata (ordinanze  numeri
81, 148, 340, 341, 382, 434 e 436),  donde  la  non  incidenza  della
questione sull'esito del  giudizio  (sentenza  n.  266  ed  ordinanze
numeri  153,  213,  292,  296,  429,  nonche',  scil.,  la  precitata
ordinanza  n.  447).  A  questa  categoria  possono   associarsi   le
declaratorie di irrilevanza  motivate  dalla  erronea  individuazione
delle norme da censurare (in tal senso, ordinanza n.  376)  e  quelle
derivanti dalla decadenza con effetti retroattivi della  disposizione
censurata  (come  nel  caso  di  un  decreto-legge  non   convertito:
ordinanza n. 443). 
    Devesi peraltro evidenziare che, in linea generale, l'abrogazione
o la modifica della disposizione, operando ex tunc,  non  esclude  di
per se' la rilevanza  della  questione,  restando  applicabile  -  in
virtu' della successione delle leggi  nel  tempo  -  la  disposizione
abrogata o modificata al processo a quo (cosi' le sentenze numeri 283
e 466). 
    In relazione al momento nel quale la questione di legittimita' e'
stata  sollevata,  la  Corte  ha  ribadito  l'inammissibilita'  delle
questioni c.d. «premature», quelle cioe', in cui «la rilevanza  [...]
appare  meramente  futura  ed  ipotetica»,  in  quanto   il   giudice
rimettente non e' ancora nelle condizioni di fare applicazione  della
disposizione denunciata (ordinanza n.  375).  Ad  esiti  analoghi  si
giunge con riferimento alle questioni «tardive», vale a dire promosse
quando  le  disposizioni  denunciate  sono  gia'  state  oggetto   di
applicazione (ordinanze numeri 55, 57, 208, 363, 370  e  377)  ovvero
quando la loro applicazione non e' piu' possibile  (ordinanze  numeri
90, 97 e 443), perche' il potere decisorio del giudice a  quo  si  e'
ormai esaurito: e' stato in proposito sottolineato che «la  rilevanza
di una questione di costituzionalita' non puo' essere fatta  comunque
discendere dalla mera impossibilita', per il giudice  rimettente,  di
sollevare  la  questione  stessa  in  una  fase  anteriore;   essendo
necessaria, al contrario, una oggettiva incidenza del  quesito  sulle
decisioni che detto giudice e' ancora chiamato  a  prendere»  (cosi',
l'ordinanza n. 363). 
    Nell'operare il controllo  circa  la  rilevanza  della  questione
sottopostale, la Corte costituzionale si attiene, in linea  generale,
alle prospettazioni del giudice rimettente.  Cosi',  ad  esempio,  di
fronte ad una eccezione argomentata sulla base di un asserito difetto
di legittimazione attiva del ricorrente nel giudizio a quo, la  Corte
ha sottolineato che la valutazione di tale profilo «e' esclusivamente
riservata al giudice» (ordinanza n.  181).  Questa  impostazione  non
impedisce alla Corte di svolgere un vaglio relativo ad  un  eventuale
difetto di giurisdizione o di competenza che infici in modo palese il
giudizio principale: nel corso del 2005,  la  constatata  carenza  di
giurisdizione del giudice rimettente ha  precluso  in  tre  occasioni
l'esame del merito della questione  (sentenza  n.  345  ed  ordinanza
numeri 9 e 196; nella sentenza n. 144, invece, e'  stato  evidenziato
che,   «pur   in   presenza   di   orientamenti    difformi    [...],
l'argomentazione svolta dal rimettente  in  ordine  alla  sussistenza
della   giurisdizione   [...]    non    appar[iva]    implausibile»);
analogamente, nell'ordinanza n. 82, a suffragio  della  dichiarazione
di manifesta inammissibilita', si e' precisato  che  «il  difetto  di
competenza del giudice  rimettente,  ove  sia  manifesto,  come  tale
rilevabile ictu oculi, comporta  l'inammissibilita'  della  questione
sollevata per irrilevanza». 
    Un ultimo aspetto da menzionare e' la  conferma  dell'"autonomia"
che e' propria della  questione  pregiudiziale  di  costituzionalita'
rispetto alle sorti del processo nell'ambito  della  quale  e'  stata
promossa: onde disattendere una  eccezione  di  inammissibilita'  per
irrilevanza sopravvenuta, nella sentenza n. 244 si  e'  chiarito,  in
conformita' ad una giurisprudenza consolidata, che  «il  giudizio  di
legittimita' costituzionale [...] una volta iniziato  in  seguito  ad
ordinanza di rinvio del giudice rimettente  non  e'  suscettibile  di
essere influenzato da successive  vicende  di  fatto  concernenti  il
rapporto dedotto nel processo che lo ha  occasionato,  come  previsto
dall'art. 22 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale». 
    Orbene, nel  caso  di  specie,  alla  luce  delle  considerazioni
prefate, non v 'e'  dubbio  che  sussista  evidente  rilevanza  della
pregiudiziale risoluzione del problema  su  descritto,  giacche'  nel
dispositivo della sentenza  o  dell'ordinanza  cautelare  ovvero  nel
decreto di liquidazione dei c.t.u. il giudice adito  e'  obbligato  a
quantificare onorari e diritti  dell'avvocato  ovvero  le  competenze
d'un perito d'ufficio. 
    In  particolare,  la  stessa  Corte  costituzionale  ha   sancito
l'obbligo  inderogabile   e   solo   eventualmente   differibile   di
liquidazione delle spese processuali ex art. 91  c.p.c.,  dichiarando
infondata,  nei  sensi  di  cui  in  motivazione,  la  questione   di
legittimita' costituzionale degli  artt.  669-octies  e  703  c.p.c.,
nella  parte  in  cui  non  stabiliscono  che  il  provvedimento   di
accoglimento di una domanda in materia possessoria debba contenere la
liquidazione delle spese della fase interdittale, in riferimento agli
artt. 3 e 24 Cost., con la precisazione, spiegata in motivazione, che
costituisce principio generale dell'ordinamento che il giudice  debba
liquidare le spese ogniqualvolta emetta un  provvedimento  conclusivo
di un procedimento,  anche  solo  ipoteticamente  idoneo  a  divenire
definitivo. 
    In ispecie, rilevato che era stata chiesta la liquidazione  delle
spese della fase  interdittale,  il  Tribunale  di  Firenze,  Sezione
distaccata  di  Empoli,  con  l'ordinanza  10  maggio   2006,   aveva
sollevato, in riferimento agli artt.  3  e  24  Cost.,  questione  di
legittimita' costituzionale degli  artt.  703  e  669-octies  c.p.c.,
nella parte in  cui  non  prevedono  che,  con  il  provvedimento  di
accoglimento della domanda possessoria, il giudice debba liquidare le
spese del procedimento. Il giudice delle leggi ha, difatti,  ritenuto
non fondata  la  censura  sollevata,  in  virtu'  della  sussistenza,
appunto, nel nostro ordinamento di un principio generale, che  impone
al  giudice  di  liquidare   le   spese   ogniqualvolta   emetta   un
provvedimento   conclusivo   di   un   procedimento,    anche    solo
ipoteticamente idoneo a divenire definitivo. 
    Va, pero', precisato che la natura del provvedimento interdittale
nel nuovo contesto legislativo non  e'  affatto  cosi'  limpida  come
ritenuto dal giudice a quo (e presupposto dalla  Consulta).  Difatti,
se la dottrina concorda nel ritenere che il  provvedimento  in  esame
sopravviva al mancato inizio o all'estinzione del giudizio di merito,
si divide sulla natura che esso assume in tali ipotesi. 
    Un primo orientamento,  cui  aderisce  il  giudice  empolese,  in
analogia  con   la   disciplina   dei   provvedimenti   cautelari   a
strumentalita' attenuata  e  in  applicazione  dell'art.  669-octies,
ultimo comma, c.p.c., ritiene  che  esso  non  acquisti  un'efficacia
diversa da quella di cui gia' godeva e sopravviva sino a quando in un
eventuale nuovo giudizio tra le stesse parti, se l'azione possessoria
sia ancora esperibile, sia emanata una  sentenza  di  merito  che  lo
contraddica. 
    Un'opposta interpretazione e' fornita da  coloro  che  sostengono
che tale  provvedimento  non  seguito  da  una  sentenza  sul  merito
possessorio acquisti la medesima autorita' di quest'ultima,  sia  pur
all'esito di una cognizione sommaria, o che si realizzi,  se  non  il
giudicato, quanto meno una preclusione, di modo che  un  giudizio  di
merito sulle stesse circostanze di fatto, se introdotto separatamente
dopo la scadenza del termine, sarebbe inammissibile. 
    Aderendo a tale ricostruzione, nessun dubbio potrebbe sorgere  in
relazione alla necessita' che  con  esso  il  giudice  provveda  alla
liquidazione delle spese - persino stando  all'erronea  ricostruzione
del giudice a quo - per diretta  applicazione  dell'art.  91  c.p.c.,
trattandosi di provvedimento idoneo ad  acquisire  l'autorita'  della
cosa giudicata e, quindi, qualificabile come «sentenza che chiude  il
processo davanti a lui». 
7. - Esperimento d'interpretazione costituzionalmente  orientata  del
diritto vivente. 
    La Corte costituzionale - come si  e'  visto  -  finisce  con  il
pronunciarsi sulla norma oggetto  dell'ordinanza  di  rimessione:  in
tale ipotesi la Corte, infatti, esplicitamente ammonisce il giudice a
dare  seguito  alla  interpretazione  che  reputa  costituzionalmente
corretta. 
    L'autorita' giudiziaria - afferma la Corte -  deve  adempiere  al
compito che le e' proprio: scegliere, tra piu' interpretazioni dotate
di una sufficiente consistenza logica e  giuridica,  quella  che  sia
conforme a Costituzione. Detto diversamente: l'obbligo  di  rimettere
una questione di legittimita' costituzionale dinanzi alla Corte nella
sola ipotesi in cui, verificate tutte le possibilita' interpretative,
non  possa  alla  disposizione  «attribuirsi  (...)  altro   che   un
significato di (almeno) dubbia costituzionalita'». 
    Il tema del conflitto (o  della  coesistenza)  tra  dottrina  del
diritto  vivente   e   canone   ermeneutico   della   interpretazione
adeguatrice sembra allora (ri)proporsi all'attenzione della dottrina,
per gli effetti che esplica nei confronti del giudice  costituzionale
e nei confronti del giudice rimettente. 
    L'aderenza della Corte alla teoria del diritto vivente comprime -
come e' noto -  il  suo  potere  di  reinterpretare  la  disposizione
indicata nell'ordinanza, suggerendone al giudice a  quo  una  lettura
adeguatrice, alle sole  ipotesi  in  cui  «non  sia  ravvisabile,  in
giurisprudenza, un univoco indirizzo interpretativo  in  ordine  alla
disposizione di legge impugnata (..), o all'ipotesi in cui il giudice
a quo si  discosti,  appunto,  dall'interpretazione  prevalente».  Il
fatto in se' che venga sollevato un dubbio di costituzionalita' su di
una norma vivente fa si' che il giudice costituzionale debba porre la
stessa  ad  oggetto  del  proprio  giudizio  e  debba  astenersi  dal
reinterpretare  la  disposizione  censurata,  cosi'  riconoscendo  un
valore impegnativo e inderogabile al diritto vivente. 
    Questo impianto  sembra  trovare  solo  parziale  conferma  nella
prassi    delle    ordinanze    interpretative     di     (manifesta)
inammissibilita'. 
    In numerose pronunce  la  Consulta,  chiamata  sostanzialmente  a
giudicare  dell'incostituzionalita'  della   disposizione   nel   suo
significato «vivente», argomenta  la  propria  scelta  decisoria  nel
senso dell'inammissibilita' sulla base della possibilita' -  teorica:
e  cioe'  consentita  dai  riconosciuti  canoni  ermeneutici   -   di
attribuire alla disciplina censurata  un'interpretazione  diversa  da
quella consolidata. 
    La Corte afferma infatti a chiare lettere che «al giudice non  e'
precluso, nell'esercizio  dei  poteri  interpretativi  che  gli  sono
propri e che non richiedono alcun avallo costituzionale, pervenire ad
una lettura della norma secundum Constitutionem anche in presenza  di
un orientamento giurisprudenziale univoco» (cfr. l'ordinanza n. 2 del
2002). 
    In concreto, agli orientamenti  dottrinali  e  giurisprudenziali,
«qualora anche essi fossero (...) univoci,  non  puo'  assegnarsi  un
valore limitativo dell'autonomia interpretativa del giudice» (ord. n.
367 del 2001). 
    Vi   e'   dunque   la   tendenza   ad   una    sempre    maggiore
responsabilizzazione interpretativa del giudice comune,  incoraggiato
ad attribuire un  autonomo  significato  alla  disposizione  nei  cui
confronti si presentano dubbi di costituzionalita'. 
    Il giudice comune non puo' nascondersi  dietro  la  maschera  del
diritto vivente: «in presenza di  un  orientamento  giurisprudenziale
consolidato che abbia acquisito i caratteri del «diritto vivente», la
valutazione se uniformarsi o meno a tale  orientamento  e'  una  mera
facolta' del giudice rimettente» (sentenza n. 91 del 2004). 
    La Corte pretende allora qualcosa di piu' dal giudice in sede  di
valutazione  della  rimessione  della  questione:  non  reputa   piu'
sufficiente  che  questi  indichi  sommariamente   nell'ordinanza   i
requisiti prescritti nell'art. 23 della  legge  n.  87/53,  ma  esige
dallo  stesso  un  impegno  maggiore,  uno  «sforzo   interpretativo»
superiore, volto a risolvere autonomamente il dubbio di  legittimita'
costituzionale (e pertanto a sollevare la questione nel solo caso  in
cui non sia possibile attribuire alla disposizione alcun  significato
conforme a Costituzione). 
    L'esplicito richiamo ai giudici a praticare il canone ermeneutico
dell'interpretazione adeguatrice o d'un costituzionalmente  orientata
della norma "sospetta" alla luce del  diritto  vivente,  va  valutato
secondo due profili. 
    In primo  luogo  se  sia  soltanto  l'affermazione  di  una  loro
pacifica liberta', cui non devono rinunciare per timore  reverenziale
o per paura dei successivi gradi del  giudizio,  o  se  non  comporti
invece uno sviamento dalla logica del diritto vivente; e  in  secondo
luogo come ridefinisca il problema degli effetti della  dottrina  del
diritto vivente nei confronti del giudice rimettente. 
    Per quanto attiene al primo interrogativo ci  si  domanda  se  la
Corte, quando invita il rimettente  all'interpretazione  adeguatrice,
pur essendo  la  questione  sollevata  nei  confronti  di  una  norma
sostenuta da un orientamento indiscutibilmente  consolidato,  non  si
ponga in una posizione di  estraneita'  rispetto  alla  dottrina  del
diritto vivente, per  il  fatto  solo  di  assumere  la  possibilita'
concettualmente    accertata    di    altre,    non     identificate,
interpretazioni, come fondamento di una propria pronuncia  che  elude
l'alternativa secca accoglimento-rigetto. 
    E ancor piu', ci si  chiede  se  tale  dottrina  possa  ritenersi
rispettata in quelle ordinanze d'inammissibilita' con  cui  la  Corte
implicitamente avalla l'interpretazione adeguatrice  prospettata  dal
rimettente  (e   non   applicata)   e   implicitamente   censura   di
incostituzionalita' la norma vivente. 
    In effetti,  la  compatibilita'  tra  le  due  dottrine  (diritto
vivente e interpretazione  conforme  a  Costituzione)  e'  fortemente
messa in discussione nelle ipotesi in cui la Corte afferma  che,  pur
in presenza di  un  orientamento  giurisprudenziale  consolidato,  il
rimettente  deve  dare  applicazione  nel   proprio   giudizio   alla
interpretazione adeguatrice. Se e' vero  che  la  norma  vivente  non
comprime il potere interpretativo del giudice comune,  per  il  quale
permane la facolta' di aderirvi o di  non  aderirvi,  e'  altrettanto
vero che la Corte costituzionale, pronunciandosi  con  una  decisione
d'inammissibilita' per non avere il rimettente  adempiuto  al  dovere
dell'interpretazione  adeguatrice,  elude  il   proprio   dovere   di
attenersi  alla  norma  vivente  e   di   evitare   di   pronunciarsi
sull'attribuzione  di  significato  consolidata.  Dal  fatto  che  il
giudice non sia vincolato non deriva affatto -  o  per  lo  meno  non
deriva affatto in  modo  lineare  -  che  la  Corte  possa  far  leva
esplicita su quest'assenza di vincolo per pronunciarsi indirettamente
- anziche' direttamente - sulla norma vivente. 
    In tanto «la dottrina del diritto vivente (...) e'  riconducibile
al tentativo di perimetrare e rendere prevedibili il  piu'  possibile
svolgimento ed esito del sindacato di costituzionalita'»,  in  quanto
l'atteggiamento «non piu' ondulatorio» della Corte  certamente  negli
ultimi anni gioca a favore di tale  obiettivo,  rendendo  incerta  la
delimitazione degli strumenti utilizzati e ampliando  il  margine  di
manovra nel decidere. 
    Per cio' che concerne al secondo profilo - e  cioe'  al  problema
degli effetti che la dottrina del  diritto  vivente  ha,  nell'ottica
della giurisprudenza della Corte qui  in  esame,  nei  confronti  del
giudice a quo - si deve distinguere il giudizio tecnico da quello  di
opportunita'. In  relazione  al  primo,  le  pronunce  interpretative
d'inammissibilita' ribadiscono che la dottrina  del  diritto  vivente
non esplica alcun effetto nei confronti dell'autorita' giudiziaria; e
che dunque pur  in  presenza  di  un  orientamento  giurisprudenziale
consolidato, il giudice  rimettente  gode  di  una  piena  autonomia,
potendo valutare se aderirvi o allontanarsene. 
    La giurisprudenza costituzionale, su questa  base,  ha  stabilito
una  prevalenza  della  dottrina   dell'interpretazione   adeguatrice
rispetto a quella del diritto vivente. E' venuta infatti  attribuendo
al   canone   dell'interpretazione   adeguatrice   una   connotazione
particolare,  condizionando  l'ammissibilita'  della  questione  alla
impossibilita' di attribuire alla disciplina impugnata un significato
conforme a Costituzione. 
    La  Corte,  quindi,  oltre  a  valutare  la   sussistenza   delle
condizioni  di  ammissibilita'  canonicamente  riconosciute,   valuta
altresi'   se   il   rimettente   abbia   cercato   di    individuare
un'interpretazione  conforme.  La  questione  deve  pertanto   essere
dichiarata inammissibile nei casi in  cui  il  rimettente  non  abbia
esperito tale tentativo e nei casi  in  cui  -  verrebbe  da  dire  a
maggior ragione -, pur avendo riscontrato la possibilita'  di  trarre
dalla disposizione censurata una norma conforme a  Costituzione,  non
abbia intrapreso tale strada, ed abbia invece sollevato la  questione
alla Corte. Questo sul piano tecnico. 
    Su quello dell'opportunita' non si puo' pero' non riconoscere che
l'affermata  liberta'  ermeneutica  dell'autorita'   giudiziaria   in
presenza di diritto vivente non e' - come del resto  sottolineato  da
parte della dottrina - un dato realistico. In effetti, quando  si  e'
formato un orientamento giurisprudenziale consolidato, la  deviazione
del singolo giudice da tale orientamento e' perlopiu' inefficace:  la
sua interpretazione, per quanto conforme a Costituzione, in  presenza
di un solido indirizzo contrario, non e' idonea a costituire un nuovo
diritto vivente, essendo soggetta a impugnazione e possibile rifinita
da parte dell'autorita' giudiziaria di grado successivo. 
    Questa   semplice   constatazione   induce   a   dubitare   della
convenienza,  sul  piano   costituzionale,   di   adottare   pronunce
d'inammissibilita' laddove si ritenga il giudice rimettente in  grado
di risolvere da se' la  questione;  e  induce  altresi'  ad  avanzare
l'idea, contraria a quella ribadita dal giudice Costituzionale  nelle
sue ordinanze, che la scelta dell'interpretazione  adeguatrice  abbia
un valore solo sussidiario rispetto al diritto vivente anche  per  il
giudice a quo. 
    Ne discende che, a precludere una decisione di merito e' altresi'
il mancato esperimento, da parte del giudice a quo, di  un  tentativo
teso a rintracciare una interpretazione della disposizione  censurata
che la renda conforme alla Costituzione. 
    Ancora, e' da considerarsi vizio insanabile la mancata  presa  in
considerazione di modifiche legislative (ordinanze numeri  24  e  317
del 2005 [nel testo che procede i riferimenti  provvedimentali  della
Consulta s'incentrano sull'anno 2005, ch'e' quello  della  svolta  in
materia di  diritto  vivente  ed  interpretazione  costituzionalmente
orientata  del   giudice   rimettente])   o   di   dichiarazioni   di
illegittimita' costituzionale (sentenze numeri 27 e 468, ed ordinanza
n. 313) intervenuti antecedentemente al promovimento della questione. 
    Il vizio  dell'ordinanza  di  rimessione  puo'  riguardare  anche
l'intervento che il giudice a quo richiede alla Corte costituzionale:
prescindendo dai casi in cui  il  petitum,  non  e'  sufficientemente
precisato  (ordinanze  numeri   188   e   400),   sono   colpite   da
inammissibilita' tutte quelle richieste volte ad ottenere dalla Corte
una pronuncia «creativa», da adottarsi, cioe', attraverso  l'utilizzo
di poteri discrezionali di cui la Corte e' priva (sentenze numeri 109
e 470, ed ordinanze numeri 260, 273 e 399), una sentenza additiva  in
malam partem in materia penale (ordinanza  n.  187)  o,  infine,  una
pronuncia che, con raccoglimento, avrebbe il risultato di creare  una
situazione di (manifesta) incostituzionalita' (ordinanza n. 68). 
    Riconducibili ai vizi che inficiano la richiesta  del  giudice  a
quo - oltre a quelle connesse all'esercizio dei poteri interpretativi
da parte della Corte - sono anche  le  formulazioni  delle  questioni
nell'ambito delle quali il rimettente non assunte una posizione netta
in merito alla questione: ne deriva l'inammissibilita'  di  questioni
formulate in maniera contraddittoria (sentenze numeri 163 e  243,  ed
ordinanze numeri 58, 112 e  297),  perplessa  (ordinanza  n.  246)  o
alternativa (ordinanze numeri  215  e  363).  Pienamente  ammissibili
sono, di contro, le questioni poste in via  subordinata  rispetto  ad
altre (ad esempio, sentenze numeri 52, 53 e 174, ed ordinanze  numeri
75 e 256). 
    Le inesattezze che vengano riscontrate in merito  all'indicazione
del petitum, o anche relativamente ad oggetti e parametri, non sempre
conducono alla inammissibilita' delle questioni: nei limiti in cui il
tenore complessivo dell'ordinanza renda chiaro il  significato  della
questione posta, e' la Corte stessa ad operare una  correzione,  cio'
che e' avvenuto nella sentenza n. 471 e  nell'ordinanza  n.  342  (in
ordine  al  petitum),  nell'ordinanza  n.  288  (per   l'oggetto)   e
nell'ordinanza n. 318 (per il parametro). 
    La sanatoria del vizio e' invece radicalmente esclusa nel caso di
ordinanze  motivate  per  relationem,  vale  a  dire  attraverso   il
riferimento ad altri atti, come scritti  difensivi  delle  parti  del
giudizio principale (ordinanze numeri 92, 125, 312 e  423),  sentenze
parziali rese nel corso del giudizio medesimo (ordinanza  n.  208)  o
precedenti ordinanze di rimessione, dello stesso o di  altro  giudice
(ordinanze  numeri  8,  22,  84,  141,  166  e  364):  per   costante
giurisprudenza, infatti, «non possono  avere  ingresso  nel  giudizio
incidentale  di  costituzionalita'  questioni   motivate   solo   per
relationem dovendo il rimettente rendere esplicite le ragioni per  le
quali ritiene rilevante e non manifestamente infondata  la  questione
sollevata,  mediante   una   motivazione   autosufficiente»   (cosi',
l'ordinanza n. 364). 
    Insomma, affinche' una questione di  legittimita'  costituzionale
possa dirsi validamente sollevata, la Corte richiede che  il  giudice
rimettente  esperisca  un  previo  tentativo  diretto  a  dare   alla
disposizione impugnabile un'interpretazione tale da renderla conforme
al  dettato  costituzionale.  Cio'  in   quanto   il   principio   di
conservazione degli  atti  giuridici  -  che  non  puo'  non  trovare
applicazione anche nell'ambito degli atti fonte  -  fa  si'  che  «le
leggi non si dichiarano incostituzionali se esiste la possibilita' di
dare loro un significato che le  renda  compatibili  con  i  precetti
costituzionali» (ordinanza n. 115), in quanto, «secondo un  principio
non discusso e piu' volte espressamente affermato [dalla] Corte,  una
normativa  non   e'   illegittima   perche'   suscettibile   di   una
interpretazione  che  ne   comporta   il   contrasto   con   precetti
costituzionali, ma soltanto perche' non puo' essere  interpretata  in
modo da essere in armonia con la Costituzione» (ordinanza n. 89).  E'
in  quest'ottica  che  debbono  apprezzarsi  le  -  invero  piuttosto
numerose - decisioni  nelle  quali  lo  scrutinio  del  merito  delle
questioni e' risultato precluso dalla  omessa  attivita'  ermeneutica
del giudice (ordinanze numeri 74, 130, 245, 250, 252, 306, 361,  381,
399, 419, 420, 427 e 452). L'attenzione della Corte a che  i  giudici
comuni esercitino la funzione interpretativa alla quale sono chiamati
non puo', pero', tradursi in una acritica accettazione  di  qualunque
esito cui essa giunga. Ne discende il potere della Corte di censurare
- solitamente con una  decisione  in  rito  -  l'erroneo  presupposto
interpretativo da cui il  promuovimento  della  questione  ha  tratto
origine (ordinanze numeri 1, 25, 54, 69, 118, 269, 310, 331 e 340). 
    L'interpretazione delle disposizioni legislative, d'altra  parte,
non puo' essere configurata come  un  monopolio  della  giurisdizione
comune: anche la Corte costituzionale  ben  puo'  -  e,  entro  certi
limiti,  deve  -   coadiuvare   i   giudici   nella   ricerca   della
interpretazione piu' «corretta», nel senso di «adeguata  ai  precetti
costituzionali». Ne sono una patente testimonianza le decisioni  c.d.
«interpretative», con  le  quali  la  Corte  dichiara  infondata  una
determinata questione alla luce dell'interpretazione che essa  stessa
ha enucleato: in taluni casi, di questa  attivita'  si  ha  riscontro
anche nel dispositivo della sentenza, che collega l'infondatezza  «ai
sensi di cui in motivazione» (sentenze numeri 63, 394, 410, 460,  471
e 480); sovente, pero', questo riscontro non viene esplicitato,  cio'
che non infirma, comunque,  la  portata  del  decisum  (ex  plurimis,
sentenze numeri 163, 266, 379, 410, 437 e 441, ed ordinanze numeri 8,
347). 
    Il «dialogo» che  viene  cosi'  a  strutturarsi  -  cadenzato  da
riferimenti, in motivazione, a decisioni rese dal Consiglio di  Stato
e, soprattutto, dalla Corte di cassazione (nella sentenza n.  303  si
richiama  anche  «l'unanime  opinione   dottrinale»)   -   non   puo'
prescindere, tuttavia, da  una  chiara  ripartizione  dei  rispettivi
compiti, veicolata, per un verso, da (a) la necessita' di tener conto
dell'acquis ermeneutico sedimentatosi  in  seno  alla  giurisprudenza
comune e, per l'altro, da (b) la  considerazione  del  ruolo  proprio
della Corte costituzione, che e' avant tout il  giudice  chiamato  ad
annullare leggi contrastanti con la Costituzione. 
    Sotto il primo profilo, viene in precipuo rilievo la  nozione  di
«diritto vivente»,  definibile  come  l'interpretazione  del  diritto
scritto consolidatasi nella prassi applicativa. 
    In diverse circostanze, la  Corte  costituzionale  ha  constatato
essa stessa la  sussistenza  di  una  uniformita'  di  giurisprudenza
idonea a dimostrare l'esistenza di un «diritto vivente». 
    Cosi' e' stato, ad esempio,  nell'ordinanza  n.  54,  in  cui  il
diritto vivente e' stato dedotto da «numerose pronunce della Corte di
cassazione», confermate da una recente sentenza delle  sezioni  umile
penali, oppure nell'ordinanza n. 427,  nella  quale  l'individuazione
del diritto vivente ha condotto a censurare l'operato del  giudice  a
quo, che aveva omesso di riferirvisi onde assolvere  «il  compito  di
effettuare una lettura della norma conforme alla Costituzione». 
    Alcune decisioni  hanno  -  espressamente  o  meno  -  suffragato
l'individuazione del diritto vivente operata dal  giudice  rimettente
(sentenza n. 283 ed ordinanza n.188), mentre  altre  decisioni  hanno
smentito quanto prospettato nell'ordinanza di rinvio, sia  nel  senso
di  escludere  l'incidenza  del  diritto  vivente  sulla  fattispecie
oggetto del giudizio principale (sentenza n. 480), sia nel  senso  di
negare  l'esistenza  stessa  di  un  orientamento   giurisprudenziale
sufficientemente  consolidato,  A  tale  ultimo   riguardo,   se   la
rintracciabilita'  di  un  orientamento   della   giurisprudenza   di
legittimita'  divergente  rispetto  a  quello  prevalente   impedisce
radicalmente la configurabilita' di  un  diritto  vivente  (ordinanze
numeri 58 e 332), alla  stessa  stregua  di  quanto  constatabile  in
presenza di «diverse, contrarie  soluzioni  della  giurisprudenza  di
merito» (ordinanza  n.  452),  a  testimoniare  l'inesistenza  di  un
diritto vivente puo' essere sufficiente anche una  recente  decisione
della Corte di cassazione (sentenza n. 460). Parzialmente  differente
e' il caso della sentenza n. 408,  che  ha  escluso  l'esistenza  del
«diritto vivente» invocato dalla Avvocatura dello Stato  per  fondare
una eccezione di irrilevanza della questione. 
    Con riferimento ai  profili  ora  in  esame,  la  decisione  piu'
importante dell'anno, per il tema affrontato oltre che per la vicenda
nella quale si e' inserita, e' comunque la sentenza n. 299. Con  essa
si e' compiuto un passo decisivo nella  evoluzione  della  disciplina
del computo dei periodi di custodia cautelare, in merito alla  quale,
nel  recente  passato,  «la  Corte  costituzionale  ha  applicato  il
principio  di  astenersi  dal  pronunciare   una   dichiarazione   di
illegittimita'  sin  dove  e'   stato   possibile   prospettare   una
interpretazione della norma censurata conforme a Costituzione,  anche
al fine di evitare il formarsi di lacune nel sistema, particolarmente
critiche  quando  la  disciplina  censurata  riguarda   la   liberta'
personale». 
    Alla luce di cio', «la Corte ha  [...]  pronunciato  la  sentenza
interpretativa di rigetto n. 292 del 1998, ed ha  poi  confermato  la
scelta della via interpretativa dopo i primi interventi delle sezioni
unite della Cassazione, sollecitate a dirimere i contrasti insorti in
materia tra le diverse sezioni, sino a quando la Corte di  cassazione
a sezioni unite  ha  confermato  con  particolare  forza  il  proprio
indirizzo interpretativo nella sentenza n. 23016 del 2004». A seguito
di tali decisioni e, in particolare, di quest'ultima  sentenza,  alla
Corte costituzionale si e' imposta la constatazione che  «l'indirizzo
delle sezioni unite [dovesse] ritenersi oramai  consolidato,  si'  da
costituire diritto  vivente,  rispetto  al  quale  non  [erano]  piu'
proponibili   decisioni    interpretative».    L'impossibilita'    di
prospettare ulteriormente soluzioni volte  a  rendere  la  disciplina
censurata conforme a Costituzione ha reso indefettibile una pronuncia
di illegittimita' costituzionale. 
    Questa vicenda illustra chiaramente l'importanza  di  una  franca
dialettica tra Corte costituzionale  e  giudici  comuni,  nell'ambito
della quale confrontare le diverse posizioni al fine di addivenire  a
risultati (interpretativi o anche caducatori, come nella specie)  che
garantiscano  il  rispetto   dei   principi   sanciti   nella   Carta
costituzionale. 
        b)  Per  quanto  concerne  i  rapporti  che  sussistono   fra
l'attivita' interpretativa dei giudici comuni e la  funzione  che  la
Corte costituzionale ricopre nel sistema, deve evidenziarsi  che  (il
coadiuvare    ne)    la    ricerca    di    soluzioni    ermeneutiche
costituzionalmente orientate  non  puo'  tradursi  in  una  sorta  di
«tutela». 
    Cio' e'  reso  evidente  dal  costante  rifiuto  della  Corte  di
assecondare richieste volte ad ottenere un avallo all'interpretazione
che il giudice a quo ritenga di dover dare (ordinanze numeri 112, 115
e 211) o addirittura richieste  dirette  a  sollecitare  la  Corte  a
dirimere contrasti interpretativi, per i quali  sono  altre  le  sedi
istituzionalmente idonee (ordinanza n. 89). 
    Alla stregua delle asserzioni sopra scritte, attesa  la  brevita'
del  testo  normativa,  del  quale   si   denunzia   l'illegittimita'
costituzionale, il tentativo su descritto si riduce,  ad  avviso  del
giudicante, alla verifica se la locuzione "il presente decreto" possa
riferirsi  ai  decreti  ministeriali  futuri  di  determinazione  dei
parametri liquidatori delle spese giudiziali. 
    Ma  l'aggettivo   "presente"   esclude   in   partenza   siffatta
interpretazione. 
    In buona sostanza, trattasi  d'una  "missione  impossibile":  "il
presente decreto" cit. altro non puo'  che  essere  il  decreto-legge
convertito e modificato n. 1 del 2012. 
    8. - L'utilita' decisoria di rito e di merito  e  la  sospensione
necessaria del processo. 
    Si  tratta  d'un  ulteriore  presupposto  d'ammissibilita'  della
delibazione  da  parte   del   giudice   delle   leggi   in   oggetto
dell'ordinanza di rimessione pronunciata  dal  giudice  a  quo:  essa
individua come  senza  la  certificazione  della  Consulta  circa  la
legittimita' costituzionale o meno delle disposizioni di legge, sulle
quali grava la convinzione  del  giudice  adito  circa  la  probabile
difformita' di esse dalle norme e dai principi della Costituzione, la
decisione  eventualmente  presa  possa  non  possa  che,  con   molta
probabilita', esulare  all'applicazione  del  principio  del  "giusto
processo" in senso sostanziale alla fattispecie divisata,  che,  qui,
concerne la "ingiusta" quantificazione delle spese processuali. 
    Codesto  aspetto  e'  sottolineato  dalla  Corte   costituzionale
medesima nella motivazione della sentenza 15 dicembre  2009  -  25/28
gennaio  2010,  n.  26,   con   cui,   dichiarando   l'illegittimita'
costituzionale dell'articolo 669-quaterdecies del codice di procedura
civile, nella parte in cui, escludendo  l'applicazione  dell'articolo
669-quinquies dello stesso codice ai provvedimenti  di  cui  all'art.
696-bis  ss.  cod.  proc.  civ.,  impedisce,  in  caso  di   clausola
compromissoria, di compromesso o di pendenza di  giudizio  arbitrale,
la proposizione della domanda di accertamento tecnico  preventivo  al
giudice che sarebbe competente a conoscere del  merito,  finisce  con
l'annoverare  tra  i  procedimenti  cautelari  anche   i   cosiddetti
accertamenti   tecnici   preventivi,   sia    ante    causavi,    sia
endoprocessuali. 
    Scrive l'estensore Criscuolo: "Si deve condividere la conclusione
alla quale e' pervenuto il giudice a  quo,  secondo  cui  il  dettato
dell'art. 669-quaterdecies c.p.c. non  consente  una  interpretazione
diversa da  quella  da  lui  adottata.  Come  questa  Corte  ha  gia'
osservato, l'univoco tenore della norma segna il confine in  presenza
del quale  il  tentativo  interpretativo  deve  cedere  il  passo  al
sindacato di legittimita' costituzionale (sentenza n. 219  del  2008,
punto 4 del Considerato in diritto)":  cio'  rivela  l'indispensabile
utilita' di quest'ultimo  ai  fini  decisori  di  rito  e  di  merito
(Francesco De Santis). 
    Codesta indispensabile utilita' impone la sospensione  necessaria
del giudizio a quo, ex art. 23 della legge n. 87 del 1953. 
    I  rapporti  tra  le  sospensioni  per   pregiudizialita'   anche
costituzionale ex art.  295  e  art.  337,  capoverso,  c.p.c.  sono,
comunque,  al  vaglio  delle  Sezioni   Unite   civili,   a   seguito
dell'ordinanza di rimessione pronunciata dalla VI Sezione  civile  13
gennaio 2012, n. 407 (Presidente Pres. di Sez. Cons. dott.  Francesco
Felicetti, relatore ed estensore Cons. dott. Nicola Cerrato). 
    1. - L 'ordinanza si segnala perche' le sezioni unite,  ai  sensi
dell'art.  374,  2°  comma,  c.p.c.,  potrebbero  essere  chiamate  a
pronunciarsi, in via generale, sui rapporti intercorrenti tra  l'art.
295 c.p.c. e l'art. 337,  2°  comma,  c.p.c.,  ossia  sul  rispettivo
ambito di applicabilita' e sui relativi presupposti di  operativita',
nonche',  in  via  particolare,  se  vada  disposta  la   sospensione
necessaria ex art. 295 c.p. c. quando la causa pregiudiziale pendente
in grado di appello attiene alla materia dello stato  delle  persone,
dal momento che l'accertamento  deve  essere  compiuto  con  sentenza
passata in giudicato. 
    Il tema dei rapporti tra le sospensioni necessaria  ex  art.  295
c.p.c. e discrezionale ex art.  337,  2°  comma,  c.p.  c.  e'  stato
oggetto di particolare attenzione da parte della dottrina soprattutto
negli anni  ottanta,  allorquando  le  due  disposizioni  sono  state
esaminate congiuntamente al fine di meglio precisarne  la  rispettiva
portata. 
    E proprio questi studi consentono di fissare un dato di partenza:
sia l'art. 295 sia l'art. 337, 2° comma, fanno  capo  ad  uno  stesso
fenomeno: la pregiudizialita' tra rapporti giuridici, nel  senso  che
uno si pone come l'antecedente logico giuridico dell'altro. La  tesi,
pur autorevolmente sostenuta,  secondo  cui  l'art.  337,  2°  comma,
riguarderebbe invece quei casi nei quali la sentenza e' invocata  per
la sua autorita' logica o «efficacia di mero fatto», quale precedente
non vincolante,  non  puo'  condividersi  perche'  la  norma  non  fa
riferimento all'autorita' meramente logica della sentenza, e cio' sia
perche' altrimenti si finirebbe per attribuire alla sentenza invocata
effetti che la stessa neppure ha quando e' passata in giudicato,  sia
perche' la sospensione sarebbe del  tutto  inutile,  non  potendo  il
giudice essere vincolato dal provvedimento emesso. 
    Riportate le due disposizioni all'interno  di  uno  stesso  campo
bisogna verificare quando le  stesse  trovano  applicazione,  tenendo
presente che la sospensione ex art. 295 e' necessaria e dura fino  al
passaggio in giudicato della sentenza pregiudiziale (art. 297 c.p.c.)
e che quella ex art. 337, 2° comma, e' discrezionale e dura fino alla
pronuncia della sentenza. 
    In dottrina e in giurisprudenza sono state  proposte  almeno  tre
diverse ipotesi di coordinamento. Una prima ipotesi  afferma  che  la
sospensione necessaria ex art. 295 ricorre in due ipotesi: 
        a) quando pendono due  giudizi,  fra  loro  in  relazione  di
pregiudizialita', non e' possibile la loro riunione  e  sul  rapporto
pregiudiziale non e' stata ancora pronunciata sentenza 
        b)  quando  nel  corso  del  giudizio  sorge  una   questione
pregiudiziale che deve essere decisa con efficacia di giudicato sulla
quale non e' competente il giudice originariamente  adito  e  non  e'
possibile realizzare la trattazione simultanea; 
    La sospensione discrezionale ex art. 337, 2° comma,  puo'  essere
disposta  quando  pendono  due  giudizi  fra  loro  in  relazione  di
pregiudizialita'  e  sul  rapporto  pregiudiziale   e'   gia'   stata
pronunciata sentenza, anche non  passata  in  giudicato,  sicche'  la
norma ricordata fa riferimento a tutte le impugnazioni sia  ordinarie
sia straordinarie. 
    Una seconda ipotesi sostiene che  la  sospensione  necessaria  ex
art. 295 ricorre sempre in due ipotesi: 
        A) Nella prima quando pendono contemporaneamente due giudizi,
anche in diverso grado, fra loro in relazione di  pregiudizialita'  e
non e' possibile la loro riunione; 
        B) Nella seconda quando nel  corso  del  giudizio  sorge  una
questione pregiudiziale che  deve  essere  decisa  con  efficacia  di
giudicato sulla quale non e' competente  il  giudice  originariamente
adito e non e' possibile realizzare la trattazione simultanea; (-) la
sospensione discrezionale ex art. 337, 2° comma, puo' essere disposta
quando nel corso del  processo  viene  invocata  l'autorita'  di  una
sentenza passata in giudicato, sicche'  tale  ultima  norma  riguarda
solo le impugnazioni straordinarie. 
    Una terza ipotesi riporta la sospensione ex art.  295  solo  alla
fattispecie disciplinata dall'art. 34 c.p.c.,  ossia  allorquando  il
giudice  viene  a  trovarsi  nell'impossibilita'   di   decidere   la
controversia perche' e' sorta una questione  pregiudiziale  che  o  a
seguito di domanda di parte  o  per  legge  deve  essere  decisa  con
efficacia di giudicato e non e' possibile assicurare  la  trattazione
simultanea delle due controversie. La sospensione  ex  art.  337,  2°
comma, viene riferita all'ipotesi in cui nel corso  del  processo  e'
invocata l 'autorita' di una sentenza passata in  giudicato,  sicche'
tale ultima norma riguarda solo le impugnazioni straordinarie. 
    Per quanto riguarda la sospensione discrezionale di cui  all'art.
337, secondo comma, c.p.c.  questa  opera  allorche'  nel  corso  del
processo viene  invocata  l'autorita'  di  una  sentenza  passata  in
giudicato, che ha deciso sul rapporto pregiudiziale, e tale  sentenza
e' impugnata in via straordinaria. 
    Questa lettura trova non poche conferme, a prescindere  dal  dato
letterale del termine utilizzato, «autorita' di una sentenza». 
    In primo luogo la norma esaminata trova i suoi  precedenti  negli
artt. 504 e 515 del codice di rito del 1865, che prevedevano  appunto
la sospensione discrezionale allorche' nel corso del processo  veniva
invocata l'autorita' di una sentenza impugnata per revocazione e  per
opposizione di terzo, ossia due  impugnazioni  straordinarie,  Queste
due norme, nel passaggio al nuovo codice di rito, sono state fuse nel
2° comma dell'art. 337. 
    In secondo luogo la sentenza, non ancora  passata  in  giudicato,
resa in un diverso processo, non puo' vincolare un altro giudice. 
    L'art. 337, 2° comma, c.p.c. pone un'alternativa al  giudice  nel
cui processo e' invocata l'autorita' della  sentenza  resa  in  altro
giudizio  ed  oggetto  di  impugnazione:  o  procedere  nella   causa
considerandosi vincolato alla soluzione data nella sentenza  prodotta
oppure    sospendere    il    processo,    in    attesa    dell'esito
dell'impugnazione. 
    Questa alternativa ricorre solo se la sentenza che viene invocata
e' gia' passata in giudicato, perche' solo questa, avendo  deciso  un
rapporto pregiudiziale, vincola il giudice dinanzi  al  quale  quella
sentenza e' invocata. Ma se la sentenza non e' passata in  giudicato,
il giudice che deve decidere  il  rapporto  pregiudicato  puo'  anche
procedere oltre nella causa senza essere vincolato a quella sentenza. 
    In terzo luogo l'art. 297 c.p.c. ricollega  la  cessazione  della
causa della sospensione ex art. 295 al passaggio in  giudicato  della
sentenza sul  rapporto  pregiudiziale  e  non  alla  pronuncia  della
sentenza di primo grado, e non distingue a seconda che la sospensione
sia stata dichiarata quando era gia'  stata  oppure  non  era  ancora
stata pronunciata una decisione nel processo pregiudiziale. 
    In conclusione, la sospensione discrezionale di cui all'art. 337,
2° comma, puo' essere disposta allorche' nel corso del processo viene
invocata l'autorita' di una sentenza passata in giudicato  che  viene
impugnata in via straordinaria (revocazione ex art. 395, nn. 1, 2,  3
e 6, ed ex art. 397 c.p.c.; opposizione di terzo ex art. 404  c.p.c.;
impugnazione del  contumace  involontario  ex  art.  327,  2°  comma,
c.p.c.). 
    Per quel che riguarda  la  sospensione  necessaria  ex  art.  295
c.p.c., bisogna sottolineare  che  in  questi  ultimi  anni  si  sono
affermate interpretazioni che tendono a ridurre sempre  piu'  il  suo
campo di operativita',  ponendo  in  risalto  beni  sicuramente  piu'
importanti della astratta esigenza di garantire  l'uniformita'  delle
decisioni, come il diritto di  difesa,  l'effettivita'  della  tutela
giurisdizionale, la ragionevole  durata  del  processo.  In  numerose
pronunce  la  Cassazione  non  solo   esplicitamente   riconosce   il
«disfavore» mostrato dal legislatore nei confronti della  sospensione
del processo civile, ma inoltre sottopone ad una lettura  restrittiva
le norme che contemplano la sospensione del processo. 
    Limitandoci alle decisioni concernenti la sospensione  necessaria
si ricorda Cass. n. 10766/2002, nella quale il Supremo collegio  pone
in evidenza «come un'interpretazione  diretta  ad  estendere  in  via
interpretativa i casi di sospensione necessaria  al  di  fuori  delle
ipotesi  tipiche,   espressamente   previste   dalla   legge,   possa
determinare una lesione di diritti costituzionalmente  garantiti,  ed
in special modo del principio  di  uguaglianza  (art.  3,  1°  comma,
Cost.), del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24,  1°  comma,
Cost.), ed  infine  del  diritto  ad  una  'ragionevole'  durata  del
processo (art. 111, 1° comma, Cost.)»: tanto da affermare che  «sulla
base dello scrutinio delle innovazioni legislative  e  degli  arresti
giurisprudenziali e dottrinari in materia e' dato  desumere,  quindi,
che una lettura dell'art. 295 c.p.c. non possa, per le considerazioni
svolte, legittimare - in nome della ratio  a  tale  norma  sottesa  -
opzioni  ermeneutiche  dirette  ad  ampliare  l'ambito  applicativo».
Oppure Cass. 3105/02 per la  quale  «costituisce  dunque  dovere  del
giudice, tutte le volte che  sia  possibile,  privilegiare  strumenti
alternativi alla sospensione del processo  ex  art.  295  c.p.c.».  O
ancora Cass. 24859/06, che  sottolinea  che  «l'esigenza  di  evitare
giudicati ingiusti» «non rappresenta un valore costituzionale  (Corte
cost. 31/98, Foro it., 1999, I, 1419),  a  differenza  del  principio
della ragionevole durata del processo ...». 
    Si tratta di affermazioni di estremo interesse perche' dimostrano
che la  Cassazione  e'  ben  consapevole  dell'estrema  pericolosita'
dell'istituto della sospensione. 
    Cio' posto, non si puo' escludere che la sospensione ex art.  295
possa trovare applicazione in caso di contemporanea pendenza, davanti
a giudici differenti o allo stesso giudice, di due processi aventi ad
oggetto rapporti giuridici  sostanziali  tra  loro  in  relazione  di
pregiudizialita'. 
    Infatti non  solo  l'art.  295  non  fa  alcun  riferimento  alla
pendenza di un diverso  processo  (a  differenza  dell'art.  337,  2°
comma,  c.p.c.)  o  all'esistenza  di  una  relazione  tra   rapporti
giuridici  sostanziali,  ma  anche  e  soprattutto  perche'  la  mera
contemporanea pendenza di  un  altro  processo  non  e'  di  per  se'
sufficiente a privare  il  giudice  del  potere-dovere  di  conoscere
incidenter tantum le questioni pregiudiziali che  si  presentano  nel
corso del processo. 
    Allorche' si  verifica  una  siffatta  situazione  il  giudice  o
dispone la riunione o prosegue nel  giudizio,  conoscendo  incidenter
tantum la questione pregiudiziale, sicche' i due  processi  procedono
in via autonoma e separata. 
    Gli artt. 40 e 274 c.p.c., infatti, escludendo  che  la  riunione
possa essere disposta quando essa puo' determinare  un  rallentamento
delle cause, non possono prevedere come  alternativa  la  sospensione
del processo sul rapporto pregiudicato; «E' un controsenso pretendere
che  nelle  ipotesi  in  cui»  l'art.   40   «esclude   la   riunione
giust'appunto  per  evitare   che   le   due   cause   subiscano   un
rallentamento, si debba applicare l'art. 295,  che  non  accelera  la
pregiudiziale e che addirittura impone una lunghissima paralisi della
dipendente. E il controsenso s'ingigantisce  se  si  pensa  di  dover
applicare l'art. 295 pur quando la dipendente si trova in  appello  e
la pregiudiziale  davanti  ad  altro  giudice  all'inizio  del  primo
grado». 
    D'altra parte gli artt.  103  e  104  c.p.c.  contemplano  che  i
processi connessi, in  caso  di  separazione,  proseguono  ognuno  la
propria strada, senza subire alcuna sospensione. Ecco allora che  gli
artt. 40, 274, 103, 2° comma, e 104, 2° comma, 337, 2° comma,  c.p.c.
costituiscono la migliore dimostrazione che la priorita'  logica  dei
rapporti giuridici non comporta sempre ed in ogni caso  la  priorita'
cronologica dei relativi accertamenti. 
    E un fondamentale ruolo nella materia  in  esame  e'  svolto  dal
principio - da sempre cardine nel nostro ordinamento  -  in  base  al
quale il giudice conosce incidenter tantum le questioni pregiudiziali
che si presentano nel corso del processo. 
    Un principio che troviamo affermato in tutti i settori del nostro
ordinamento (artt. 4 e 5 legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. E; art.  2
e 75 c.p.p.; artt. 7 e art. 39 dleg. 31 dicembre 1992 n. 546; art. 63
d.leg. n. 165 del 2001; artt. 819 c.p.c.; art. 5 legge 31 maggio 1995
n. 218; art. 8 cod. proc. amm.), come riconosce la Cassazione  e  che
porta ad affermare che l'art. 295, lungi dal  disciplinare  l'ipotesi
della contemporanea pendenza di processi, fa riferimento ai  casi  in
cui il giudice si trova nella temporanea impossibilita' di giudicare,
sia pure incidenter tantum, la questione che si  presenta  nel  corso
del processo. 
    Il collegamento con l'art. 34 c.p.c. e' evidente: la  sospensione
necessaria ex art. 295 trova il suo ambito di applicazione  allorche'
nel corso del processo sorge una  questione  pregiudiziale  che  deve
essere  decisa  con  efficacia  di  giudicato  e  non  e'   possibile
assicurare la trattazione simultanea delle cause o vi sia  differente
giurisdizione esclusiva non civile sulla materia del contendere. 
    L'art. 34 contempla  due  differenti  ipotesi  di  trasformazione
della questione in controversia pregiudiziale; l'istanza esplicita di
una delle parti e la previsione legale. 
    Sta di fatto che l'art. 34 prevede che  in  caso  di  domanda  di
accertamento incidentale allorche' su di essa non  e'  competente  il
giudice adito, tutta la causa  deve  essere  trasferita  al  «giudice
superiore», con la conseguenza che l'art.  34  ammette  l'istanza  di
parte solo quando e' comunque  possibile  assicurare  la  trattazione
simultanea  dinanzi  al  giudice  competente  per   la   controversia
pregiudiziale. 
    Peraltro, proprio l'esigenza costituzionale che il processo abbia
una ragionevole durata  porta  ad  escludere  che  le  parti  possano
trasformare la questione in controversia  pregiudiziale,  dando  vita
alla  sospensione  del  processo,  allorche'  non  e'  possibile   la
trattazione simultanea. 
    La questione sara' conosciuta incidenter tantum ed il diritto  di
difesa delle parti sara' garantito. 
    Ne deriva allora che la sospensione  del  processo  ricorre  solo
quando l'accertamento con  autorita'  di  giudicato  della  questione
pregiudiziale, ossia la trasformazione in «causa» di una  «questione»
pregiudiziale, e' richiesto  dalla  legge  (ad  esempio  nell'ipotesi
disciplinata nell'art. 124 c.c. oppure quando sorge una questione  di
stato  e  capacita'  delle  persone  ovvero  allorche'  sulla  stessa
fattispecie  concreta  sia  stato  anteriormente  alla  litispendenza
civile chiamato a decidere  un  giudice  appartenente  ad  un  ordine
giudiziario, dotato di giurisdizione  esclusiva,  come,  appunto,  la
Corte  costituzionale,  un  organo  giudiziario   sovranazionale   o,
soprattutto,  il  giudice  penale   competente).   Il   coordinamento
dell'art. 295 e dell'art. 337, 2° comma, c.p.c., nella misura in  cui
circoscrive l'operativita' della sospensione, che comporta di per se'
comunque un diniego, sia pure temporaneo, di giustizia,  si  presenta
piu' rispondente anche  all'esigenza  di  assicurare  la  tutela  dei
diritti in un tempo ragionevole. 
    In questi ultimi tempi la Corte di cassazione  ha  letto  diverse
norme processuali alla luce del principio  della  ragionevole  durata
del  processo,  al  punto  da  riscrivere  lo  stesso  dato  testuale
(pensiamo per tutte alla interpretazione data all'art. 37 c.p.c. . 
    Ebbene, proprio le norme sulla  sospensione,  che  comportano  un
indubbio  allungamento  dei  tempi   del   processo   devono   essere
interpretate in senso restrittivo e comunque in linea  con  i  valori
affermati  nella  nostra  Carta  costituzionale,  come  quello  della
ragionevole  durata  del  processo.  Tra  l'esigenza  di   assicurare
l'uniformita' e l'armonia delle  decisioni,  che  non  e'  un  valore
costituzionale, e l'esigenza di pervenire  alla  decisione  in  tempi
ragionevoli  l'interprete  non  puo'  non  privilegiare  la   seconda
esigenza. 
    D'altro canto e' lo stesso giudice delle leggi che riconosce  che
l'esigenza di assicurare l'armonia e  l'uniformita'  delle  decisioni
non e' un valore costituzionale. 
    In una decisione di alcuni anni fa, sia pure resa con riferimento
al processo tributario, la Corte ha  affermato  la  legittimita'  del
sistema processuale tributario che limita la  sospensione  necessaria
per pregiudizialita' ad alcuni specifici e tassativi casi (querela di
falso, questione di stato e capacita' delle  persone)  e  prevede  la
cognizione  incidenter  tantum   per   tutte   le   altre   questioni
pregiudiziali (art. 39 d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546). 
    Sottolinea la Corte che «il  legislatore,  limitando  i  casi  di
sospensione del processo, ha inteso rendere piu' rapida e agevole  la
definizione del  processo  tributario  finalita'  in  se'  del  tutto
legittima anche sotto l'aspetto, non certo secondario,  della  tutela
dei diritti del contribuente»; «la limitazione della sospensione  per
pregiudizialita' del processo tributario rappresenta una  scelta  del
legislatore che, in quanto non lesiva del criterio di ragionevolezza,
si  sottrae  al  sindacato  di  legittimita'   costituzionale»;   «la
possibilita' accordata al contribuente, alla stregua di una  corretta
interpretazione del sistema, di far valere nel processo  pregiudicato
- indipendentemente dal corso e dall'esito del giudizio pregiudiziale
- tutte le sue difese, rende priva di fondamento  la  violazione  ...
del precetto costituzionale di cui all'art. 24, 2° comma, Cost.». 
    Non e' questa sede, tuttavia, per affrontare  la  vexata  questio
del contrasto da anni vertente fra l'Adunanza plenaria del  Consiglio
di Stato e le Sezioni Unite civili della S.C. in  materia,  il  quale
sembra sia stato risolto, almeno in tema  di  gravame  al  C.N.F.  di
provvedimento  sanzionatorio  d'avvocato,  previamente  sottoposto  a
processo penale, con l'allineamento del S.C. alla tesi propugnata dai
giudici di Palazzo Spada. 
    L'auspicio  e'  che  le  sezioni  unite  contribuiscano  a   fare
chiarezza in ordine ai rapporti tra le sospensioni necessaria ex art.
295 e discrezionale ex art.  337,  2°  comma,  c.p.c.,  fornendo  una
lettura che privilegi l'esigenza di assicurare la ragionevole  durata
dei processi, limitando cosi' «il dovere di sospensione ex  art.  295
c.p.c. ai casi in cui l'accertamento con autorita' di giudicato della
questione pregiudiziale (ovvero la trasformazione in 'causa'  di  una
'questione' pregiudiziale) sia richiesta dalla  legge».  Una  lettura
che sarebbe peraltro in linea con le altre precedenti  decisioni  che
le sezioni unite hanno offerto in tema di sospensione del processo in
questi ultimi anni. 
    Restano chiaramente escluse dal vaglio delle Sezioni Unite civili
quelle ipotesi nelle quali e' la  legge  ad  imporre  la  sospensione
necessaria del processo in corso, come quella  imposta  dall'art.  23
della legge n. 87 del 1953, in materia di non manifesta  infondatezza
d'una questione di legittimita'  costituzionale  in  via  incidentale
insorta in un processo civile, penale,  amministrativo,  contabile  o
tributario. 
    Non importa, in tal  caso,  se  la  forma  del  provvedimento  di
rimessione sia una "sentenza" Lo confermano: 
        Corte costituzionale, 15 luglio 2010, n. 256,  pubblicata  ed
annotata su: 
          1. - Foro amm. CDS 2010, 7-8, 1398 (s.m.) 
          2. - Giur. cost. 2010, 4, 3106 
 
                               Massima 
 
    Nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt.  30  e  33
d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570, censurati, in riferimento agli artt. 49
e 51 Cost., la circostanza che la questione sia  stata  promossa  dal
giudice "a quo" con sentenza e non con  ordinanza  non  ne  determina
l'inammissibilita', in quanto, posto che nel sollevare la  questione,
il rimettente ha disposto la sospensione del procedimento  principale
e  la  trasmissione  del  fascicolo  alla  cancelleria  della   Corte
costituzionale, a tali  atti,  anche  se  assunti  con  la  forma  di
sentenza,  deve  essere  riconosciuta   sostanzialmente   natura   di
ordinanza, in conformita' a quanto previsto  dall'art.  23  legge  11
marzo 1953 n. 87 (sent. n. 151 del 2009).